La “guerriglia” storica che, principalmente in Italia, contrappone nell’immaginario architetti e ingegneri – per luogo comune, si danno per creativi indomiti i primi e per pedanti esecutori i secondi – ha davvero poco senso di fronte alla ragionevole consapevolezza che architettura e ingegneria si innervano reciprocamente: senza la valutazione delle sollecitazioni che comprimono, trazionano e torcono una forma, in condizioni sia ordinarie sia eccezionali, e senza la sua conseguente modellazione, la diatriba tra arte e tecnica degenera in quella più deflagrante tra equilibrio statico e collasso strutturale.
Dal sistema trilitico alle megastrutture complesse, l’architettura contemporanea sta vivendo un innegabile processo d’ingegnerizzazione, a prova del fatto che l’innovazione tecnologico-ingegneristica sta acquisendo un ruolo sempre più sinergico rispetto alla composizione architettonica (al netto di spettacolarizzazioni talvolta mirate al mero marketing territoriale o a deviare l’attenzione da disfunzionalità sociali, economiche e urbanistiche latenti).
Per rintracciare le origini di questa sinergia, ripercorriamo l’opera di grandi autori di formazione tecnico-ingegneristica che, dal passato ad oggi, e spesso “all’ombra” di famosi architetti (Xenakis, Arup), hanno concepito il disegno architettonico a partire dagli equilibri delle forze in campo (e non viceversa), spingendolo a livelli di efficienza (statica e poetica) estremamente elevati: dall’evanescenza delle strutture metalliche di Eiffel, Šuchov e Zorzi; alle dinamiche plastiche del laterizio di Dieste; alle drammatiche manipolazioni cementizie, tra onde sinuose e nervature scarnificate di Nervi, Candela, Musmeci e Calatrava.