Un’architettura ambigua: il Palazzo di Giustizia di Milano compie 90 anni

Resa famosa dai telegiornali dell’epoca di “Mani pulite”, la più importante opera milanese di Marcello Piacentini è un Giano bifronte, sospeso tra storicismo e timide aperture verso la modernità.

Esistono molte architetture e spazi pubblici che l’immaginario comune associa a un evento tragico, a un periodo oscuro o più in generale a significati negativi. È il caso, in Italia, di tante realizzazioni di epoca fascista, in particolare edifici pubblici, che malgrado la loro rifunzionalizzazione in epoca democratica restano la rappresentazione costruita del malgoverno e degli abusi di potere della dittatura.

Ad almeno una tra queste architetture va riconosciuto il primato non invidiabile di rimandare a un secondo momento drammatico: il Palazzo di Giustizia di Milano (1932-1940) sovrappone alla cupa memoria fascista quella altrettanto sconvolgente dell’inchiesta di “Mani pulite”, che ne fece il fondale più ricorrente dei telegiornali di tutte le reti nei primi anni ’90.

Marcello Piacentini, Palazzo di Giustizia, Milano, 1932-1940. Cantiere. Foto © Fotografia Baravalle. Università di Firenze. Biblioteca di Scienze Tecnologiche (BST) - Archivi di Architettura, Fondo Marcello Piacentini (FMP) 
Marcello Piacentini, Palazzo di Giustizia, Milano, 1932-1940. Cantiere. Foto © Fotografia Baravalle. Università di Firenze. Biblioteca di Scienze Tecnologiche (BST) - Archivi di Architettura, Fondo Marcello Piacentini (FMP) 

Malgrado il sovraccarico simbolico e la sovraesposizione mediatica, a novant’anni dall’apertura dei suoi cantieri il Palazzo di Giustizia resta un’architettura tutto sommato poco conosciuta, almeno dal grande pubblico, e su cui vale la pena ritornare. Al di là delle sue qualità intrinseche, si tratta di un’opera rappresentativa per raccontare tre traiettorie parallele: quella dell’urbanistica milanese del Ventennio, quella del suo progettista Marcello Piacentini (1881-1960) e quella dell’architettura fascista nel suo insieme.

Il “piccone risanatore” nel centro di Milano

Il regime non risparmiò colpi bassi alle città italiane antiche di tutte le dimensioni. Il “piccone risanatore”, per citare il linguaggio dell’epoca, giustificava gli sventramenti su basi igieniste – i quartieri centrali erano mediamente poveri e sovraffollati – e di gestione del traffico – per fluidificare la circolazione automobilistica. Altri e più ambigui interessi si sovrapponevano a questo racconto di facciata: la speculazione privata si arricchiva costruendo grandi volumetrie residenziali e terziarie nei terreni liberati, mentre il potere politico vi realizzava i suoi edifici di rappresentanza.

Molte delle sedi istituzionali della Milano pienamente fascista si allineano lungo lo stesso asse urbano, previsto dal Piano Albertini del 1934. La così detta “racchetta” si snoda con un percorso curvilineo appena a sud del Duomo e riconnette tracciati già esistenti, come l’attuale corso di Porta Vittoria e via Larga, con altri ricavati da imponenti demolizioni – via Verziere, via Albricci. Mai conclusa, la racchetta s’interrompe oggi in piazza Missori, dove incrocia i falsi ruderi della chiesa di San Giovanni in Conca, non bombardata ma demolita fino al tardivo alt della Soprintendenza.

I prospetti urbani della racchetta offrono un’abbondante rassegna di edifici istituzionali fascisti. Con la Camera del Lavoro (1930-1933), il Palazzo di Giustizia inaugura ad est una sfilata che prosegue con il Palazzo degli Uffici Comunali (1925-1927) e il Palazzo dell’INPS di piazza Missori (1929-1931). Opera più precoce dello stesso Piacentini, quest’ultimo è un interessante termine di confronto per comprendere le evoluzioni, o piuttosto la varietà della produzione del più fascista degli architetti italiani.

Marcello Piacentini trombone a tempo parziale

“Trombone” è un termine ormai entrato nel linguaggio corrente della storia dell’architettura per indicare gli architetti fascisti più smaccatamente storicisti, da Armando Brasini ad Alberto Calza Bini. Figura di maggior rilievo e complessità, Piacentini può essere considerato, per così dire, un trombone a tempo parziale.

Il Palazzo dell’INPS lo dimostra bene, con la sua facciata sovraccarica di segni della classicità sovradimensionati e ravvicinati – mezze colonne, timpani, cornici, lesene – e ulteriormente appesantita dal rivestimento integrale in marmo. La connessione tra il potere fascista e i fasti dell’antica Roma è qui proposta nella sua forma più letterale e gridata.

Il Palazzo di Giustizia, i cui cantieri si aprono pochi mesi dopo la conclusione del Palazzo dell’INPS, testimonia del sostanziale eclettismo di Piacentini, che risponde a due incarichi tutto sommato confrontabili – due sedi di istituzioni controllate dallo stesso governo centrale di Roma – con architetture tra loro piuttosto lontane sul piano stilistico.

Marcello Piacentini, Palazzo di Giustizia, Milano, 1932-1940. Schizzo. Università di Firenze. Biblioteca di Scienze Tecnologiche (BST) - Archivi di Architettura, Fondo Marcello Piacentini (FMP) 
Marcello Piacentini, Palazzo di Giustizia, Milano, 1932-1940. Schizzo. Università di Firenze. Biblioteca di Scienze Tecnologiche (BST) – Archivi di Architettura, Fondo Marcello Piacentini (FMP) 

La modalità di assegnazione dell’incarico a Piacentini e la libertà che gli viene concessa nell’elaborazione del progetto meritano un breve excursus. Dopo l’esito misteriosamente nullo del concorso del 1929, nel 1930 il podestà di Milano conferisce l’incarico per via diretta a quello che è ormai riconosciuto come il più potente degli architetti fascisti. Di fronte alla richiesta di circa 18 mila mq di superficie, la proposta di Piacentini ne offre quasi 40 mila, duplicando spazi e costi. Ai più attenti non sfuggirà l’ironico parallelo con i meccanismi che regolano la realizzazione delle opere pubbliche negli anni di Tangentopoli.

All’inaugurazione dell’edificio, nel 1940, tutte le sedi dell’amministrazione della giustizia a Milano si trovano riunite in un unico, colossale edificio che si racconta bene a partire dai suoi numeri: 1.200 stanze, 65 aule, un fronte su principale di 120 m, due fronti laterali di circa 200 m, una torre d’angolo alta 64 m. Il suo volume mastodontico è scavato da nove corti interne, di cui quella centrale, affacciata su corso di Porta Vittoria, è in realtà un monumentale ingresso coperto.

Altrettanto esagerata è la scelta – e la spesa – per materiali e decorazioni: Serizzo della Val Masino per il basamento, marmo Vallestrona per le facciate, bronzo per i serramenti, e ancora 140 opere di pittura e scultura distribuite in tutto l’edificio e realizzate da un gruppo di artisti che comprende Giacomo Manzù e Fausto Melotti, Carlo Carrà e Mario Sironi.

Malgrado l’ipertrofia del complesso, con il Palazzo di Giustizia Piacentini stabilisce un legame con la classicità meno didascalico e in fondo più moderno del Palazzo dell’INPS. Il passato imperiale è richiamato non dall’apparato decorativo, decisamente semplificato, ma dalla massa stessa dell’edificio, assolutamente fuori scala rispetto al contesto come i monumenti dell’antica Roma, dalla simmetria della sua composizione planivolumetrica e dalla scansione regolare delle sue aperture.

Un’architettura ambigua per un regime reazionario

Il Palazzo di Giustizia è stato indicato a più riprese come “l’edificio più grande d’Italia”, “l’edificio con più stanze” o anche “l’edificio con più marmi”. Ancor più che per la sua scala, però, è esemplificativo dell’architettura fascista perché ne documenta il posizionamento ambiguo tra reazione e avanguardia.

Marcello Piacentini, Palazzo di Giustizia, Milano, 1932-1940.
Marcello Piacentini, Palazzo di Giustizia, Milano, 1932-1940. Cantiere. Foto © Fotografia Baravalle. Università di Firenze. Biblioteca di Scienze Tecnologiche (BST) – Archivi di Architettura, Fondo Marcello Piacentini (FMP)

Dopo un fugace innamoramento per i linguaggi razionalisti, che produsse episodi eccellenti come la Casa del Fascio di Como di Giuseppe Terragni (1932-1936), già piuttosto tarda, il regime scelse di rappresentarsi con uno stile storicista e conservatore. Lo scioglimento forzato del MIAR (Movimento Italiano di Architettura Razionale), dopo la scandalosa “Tavola degli orrori” allestita nel 1931 da Pietro Maria Bardi, è l’evento-chiave di questo allontanamento dalle avanguardie.

Concepito e costruito a valle di questo spartiacque, il Palazzo di Giustizia si allinea alle direttrici ufficiali ed evita qualsiasi slancio realmente modernista; pure, il complessivo livello di astrazione che lo caratterizza testimonia della sensibilità di Piacentini agli stimoli contradditori che il dibattito architettonico dell’epoca gli offriva. In questo senso, il colosso di Porta Vittoria è a tutti gli effetti un’opera ambigua, giano bi-fronte al pari del suo progettista e dell’intero corpus delle architetture istituzionali del Ventennio.

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