In campagna o… nello spazio? Utopie di fuga dalla città negli anni Settanta

I piani di colonizzazione dello spazio di Jeff Bezos ed Elon Musk nascono sulla scia di quelli degli anni Settanta: chi viveva in città cercava un riavvicinamento alla natura e risalgono a quel periodo anche i primi tentativi di remote working.

Tra gli anni Settanta e gli Ottanta, fattori come l’inquinamento, i cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse e l’aumento della popolazione fecero suonare il campanello d’allarme: scienziati e studiosi capirono che le città sarebbero diventate ben presto luoghi inospitali, quasi invivibili. 

L’introduzione di nuovi sistemi di produzione e di innovative tecnologie di comunicazione, soprattutto negli Stati Uniti, portarono gruppi multidisciplinari e professionisti affermati a elaborare ipotesi di sviluppo suburbano e addirittura spaziale, che si configurarono, più o meno utopisticamente, come paradigmi alternativi alla condizione di disagio urbano. 

Neil A. Armstrong e Buzz Aldrin, sbarco sulla luna 1969
Neil A. Armstrong e Buzz Aldrin, sbarco sulla luna 1969

Negli anni Settanta, molte famiglie stavano iniziando ad abbandonare le grandi città per spostarsi verso aree rurali e riconnettersi alla natura, quando un gruppo di architetti, ingegneri e biologi operante nell’area della baia di San Francisco propose di invertire questa tendenza e di trasformare le città in luoghi ecologicamente stabili e salutari.

Così il gruppo multidisciplinare composto da Sim Van der Ryn, Bill e Helga Olkowski, Tom Javits e il Farallones Institute brevettò a Berkeley la Integral Urban House, una casa dimostrativa costruita seguendo l’ottimismo e l’euforia del tempo per le tecnologie sostenibili. La casa sperimentale materializzava un tentativo di trapiantare i modi di vita suburbani in un contesto urbano e quindi di iniettare una coscienza ecologica nella vita domestica delle città. La casa era equipaggiata con singolari dispositivi ecologici, come una toilette a compostaggio, un alveare e uno stagno d’acqua dolce, inoltre questa residenza era dotata di numerosi congegni meccanici per la produzione dell’energia. 

Purtroppo l’edificio – un vecchio cottage vittoriano convertito in fattoria urbana – divenne ben presto una macchina così rumorosa e assordante da scatenare le furie dei vicini. L’esperimento di ibridare abitudini urbane e suburbane, quindi, non riuscì.

Integral Urban House
Integral Urban House, foto del 2014

Successivamente, nel 1980, lo scrittore Alvin Toffler prefigurò una “terza ondata” di sviluppo dei sistemi di comunicazione, caratterizzata dall’avvento di nuove tecnologie che avrebbero permesso di superare le barriere spazio-temporali. Nel suo libro The Third Wave, Toffler identificò con perspicacia le direzioni del cambiamento nell’interconnessione e nella comunicazione a distanza. Anticipando la rivoluzione digitale, Toffler sosteneva che i sistemi di produzione basati sulle nuove tecnologie dell’informazione avrebbero trasferito i lavoratori dagli uffici alle loro rispettive case, che sarebbero diventate dei cottage elettronici.

In questo modo, il futurologo americano propose una nuova e sistematica riflessione sulla casa, intesa contemporaneamente come luogo di residenza, lavoro e svago. Questa utopia domestica avrebbe provocato una trasformazione in tutti i settori. Secondo Toffler, il telelavoro avrebbe ridotto i lunghi spostamenti e permesso di avviare piccole attività in luoghi suburbani o rurali. Il minore impiego di risorse, conseguente alla diminuzione dei trasferimenti, avrebbe reso tale ipotesi interessante sia in termini economici che di miglioramento della vita di quartiere, nella direzione di una proficua sinergia tra economia, disegno urbano e visione sociale. Questo cambiamento avrebbe stabilizzato nel tempo le piccole comunità e avrebbe rinvigorito il concetto di civitas, reale o virtuale che fosse. 

Alvin Toffler, autore di "The Third Wave", 1980
Alvin Toffler, autore di "The Third Wave", 1980

Per il visionario californiano, l’electronic cottage non aveva la dimensione claustrofobica che la casa ha assunto durante l’attuale pandemia da Covid-19 ma sarebbe stato, al contrario, uno strumento di liberazione dalla schiavitù degli spostamenti. Il recente cambiamento strutturale nell’organizzazione del lavoro portato dalla diffusione del remote working sembrerebbe traghettare i lavoratori verso la direzione prefigurata da Toffler. Tuttavia, nonostante le potenti iniezioni di tecnologie della comunicazione a cui si è quotidianamente sottoposti, ancora oggi il rapporto tra lo spazio urbano e quello suburbano non è stato ottimizzato e in assenza di infrastrutture adeguate, il cottage elettronico rimane un privilegio di pochi.

Alla domanda se le comunità spaziali sarebbero state ‘libere dai conflitti, libere dalla sofferenza, libere dalla tristezza’, O’Neill rispondeva ‘certamente no, se sono umane’.

L’ultimo paradigma alternativo alla condizione di disagio urbano è quello fornito dallo scienziato Gerard K. O’Neill negli anni settanta, un’ipotesi di sviluppo che fu destinata ad avere proseliti in tempi più recenti. L’idea di costruire colonie umane nello spazio potrebbe sembrare solo un vaneggiamento fantascientifico ma nel suo libro, The High Frontier (1976), il docente di fisica di Princeton riuscì a spiegare fin nei dettagli – grazie anche alle affascinanti illustrazioni di Don Davis – come programmare, avviare e progettare un’intera impresa spaziale. Secondo O’Neill, la crescita esponenziale della popolazione avrebbe creato una congestione urbana e planetaria, un alto tasso di disoccupazione e un conflitto senza precedenti tra efficienza industriale e protezione ambientale. La colonizzazione dello spazio era sostanzialmente una risposta all’esiguità delle risorse economiche sulla Terra, risorse limitate e alle quali l’essere umano per sua natura non sa rinunciare. Per questa ragione, l’unica alternativa possibile sembrava essere quella di procurarsi energie poco costose e inesauribili fuori dal pianeta Terra. 


Gli habitat spaziali avrebbero avuto condizioni abitative privilegiate, per certi versi idilliache, ricreando ambienti suburbani terrestri con densità di popolazione molto bassa e abbondanza di aree verdi. Ma nonostante la progettazione dettagliata di tutte le operazioni – dalla configurazione degli habitat alle soluzioni per l’ottimizzazione della produzione agricola, dalla progettazione dei lanciatori di massa per inviare i materiali nello spazio ai mezzi di trasporto spaziali – lo stesso O’Neill ammette che “l’esplorazione e la colonizzazione dello spazio non è altro che una ‘soluzione tecnologica’ per problemi che dovrebbero essere risolti a un piano superiore, più intellettuale”.

In quegli anni, anche il noto economista Robert Heilbroner stava studiando le conseguenze della limitatezza dell’energia e delle materie prime sulla Terra e nelle conclusioni del suo libro, La prospettiva umana, si chiedeva se fosse possibile far fronte alle sfide del futuro senza pagare un prezzo pauroso. Per Heilbroner non c’era alcuna speranza. Al pessimismo dell’economista seguiva quello dello scienziato. Alla domanda se le comunità spaziali sarebbero state “libere dai conflitti, libere dalla sofferenza, libere dalla tristezza”, O’Neill rispondeva “certamente no, se sono umane”.

Official SpaceX Photo
Official SpaceX Photo

Ciò nonostante, oggi Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ed Elon Musk, magnate di SpaceX e fondatore di Tesla, stanno portando avanti i loro piani di colonizzazione dello spazio, influenzati proprio dal libro di Gerard O’Neill. Non si comprende ancora pienamente la necessità del piano – trasferire l'industria pesante sulla Luna, condurre delle operazioni di turismo spaziale o trasformare Marte in una colonia per l’1%? – ma in tempi di decolonizzazione, per così dire, si teme che imprese del genere diventino solo un colossale spreco di capitali, risorse che potrebbero essere impiegate per alleviare alcune più o meno evidenti sofferenze terrestri.

Immagine di apertura:
courtesy Official SpaceX Photos

Ultimi articoli di Architettura

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram