Angelo Mangiarotti: un padiglione per vedere il mare

Alla richiesta di un padiglione per esporre grandi navi per la Fiera del Mare di Genova, del 1963, l'architetto immaginò e propose un piccolo edificio per guardare le navi dal vero. 

Questo articolo è apparso originariamente su Domus 1058, giugno 2021.

Sessant’anni fa, questo piccolo gioiello di architettura aveva impressionato anche Konrad Wachsmann. Aveva posizionato Angelo Mangiarotti tra i più originali progettisti contemporanei, in mezzo a Pierluigi Nervi e Felix Candela, dopo che aveva già fatto propria la lezione di Mies, acquisita direttamente nei suoi (loro) anni americani. Il Padiglione per esposizioni per la Fiera del Mare di Genova (1962-1963) doveva mostrare le attività in campo navale di 16 aziende del gruppo IRI. Era costituito da due parti autonome e perfettamente complementari: una piccola aula seminterrata in cemento armato (la cui copertura diventava una piazza), e una grande tettoia di acciaio che sovrastava, scartandola, la costruzione sottostante. Certo, svettano l’eccezionalità strutturale e la bellezza formale della costruzione metallica, auspicata dalla committenza per mostrare le capacità costruttive dell’intero comparto produttivo: caratterizzata da una grande tettoia lenticolare, leggera nel cielo, sostenuta con slancio e grazia da quattro pilastri affusolati (“quattro pilastri di sagoma elegantissima bastano a tenere sospesa la stupenda copertura sopra la piattaforma-terrazza”, scrive Giulia Veronesi su Zodiac 11, 1963), una copertura realizzata sul principio dell’arco “non spingente”, dove la sagoma dell’intradosso collaborava strutturalmente, mentre l’estradosso aveva ‘solo’ in funzione di rivestimento e coprente. 

Altrettanto sorprendente è anche la risposta del progettista alla specifica richiesta di immaginare un edificio per permettere l’esposizione di grandi navi. Partendo dall’analisi del luogo – a pochi metri dal mare e in prossimità del punto in cui le navi entravano in porto – Mangiarotti ribaltò gli obiettivi e convinse la committenza a ‘sfruttare’ le vere navi, lì perfettamente visibili nel loro lento e continuo passaggio, immaginando così un edificio rispettoso e misurato, strutturalmente audace, formalmente leggero e planimetricamente esemplare. La rilettura analitica del progetto attraverso le fonti oggi disponibili (fotografie, immagini, pubblicazioni, documenti, mentre l’edificio è stato malamente abbattuto nel 2000 nonostante il buono stato di conservazione) sottolinea l’idea di un percorso lucidamente stabilito per offrire un’esperienza immersiva ‘totale’, a tratti sinestetica, grazie al disegno e alla distribuzione degli spazi che accompagnavano il visitatore durante il racconto espositivo “Dall’acciaio alla nave”. 

L’accesso al padiglione avveniva da Nord. Poco prima di intercettare il profilo della grande copertura e di avvicinarsi alla piastra della ‘piazza’ coperta (che si presentava come un ‘muro’ di cemento armato alto più di 1 m, e quindi inaccessibile direttamente), si veniva accolti da un ampio scalone che introduceva nello spazio interrato, dove si trovava un’aula per riunioni, proiezioni e conferenze, e dove cominciava la trasmissione dei contenuti espositivi. A sinistra di questo grande ambiente, una seconda scala, larga esattamente la metà della prima, permetteva il ritorno in superficie – “si sale poi al piano superiore per una scala di dimensioni minori della prima, affinché la sorpresa, all’apparire dell’ambiente esterno, risulti più forte”, riporta Domus 418, settembre 1964. Si approda sotto la grande copertura nell’angolo a Nord-Est, quindi in posizione opposta rispetto al mare, e di fronte a una composizione di rami, fogliame e pietre: un grande ikebana ordinato in una lunga e bassa fioriera che fungeva anche da balaustra. 

La rilettura analitica del progetto attraverso le fonti oggi disponibili, sottolinea l’idea di un percorso lucidamente stabilito per offrire un’esperienza immersiva ‘totale’ grazie al disegno e alla distribuzione degli spazi che accompagnavano il visitatore...

Girando su se stesso, il visitatore poteva volgere lo sguardo verso il mare da una posizione privilegiata, rialzata a oltre un metro da terra, al riparo dal sole e dalle intemperie. Proseguendo, e percorrendo lo spazio laterale, incontrava 12 grandi vetrine espositive dal profilo concavo – lunghe ognuna circa 7 m e alte 1,85 m e, quindi, capaci di avvolgere interamente corpi e sguardi – disposte una di fronte all’altra, così che ogni coppia di vetrine potesse suggerire uno spazio di fruizione di ponderata compressione intorno al corpo e che il loro disegno complessivo fosse ottimale per la visione dei contenuti, mentre il soffitto affusolato del padiglione, alto oltre 5 m, regalava una sensazione esattamente opposta, cioè di dilatazione e di apertura verso il cielo, l’orizzonte, il paesaggio. “La forma dell’intradosso della copertura di acciaio – a superficie convessa, come un’ala che si rialza – è nata dall’intento di portare di continuo lo sguardo e l’interesse del visitatore verso l’esterno”, riporta ancora Domus 418. 

Oltre le vetrine, e verso il mare, la grande piastra si caratterizzava per una ‘passerella’ che proseguiva, in modo asimmetrico e oltre la proiezione della copertura, di pochi metri verso Est, e di quasi 15 verso Ovest, dove il racconto espositivo terminava con una grande elica semplicemente appoggiata a terra: evidente simbolo della produzione della committenza, ma anche un “Compasso d’Oro a ignoti”, come avrebbe suggerito Bruno Munari (Ottagono, dicembre 1972) e omaggio alla cultura moderna che i primati della tecnica – Picabia e Le Corbusier docent – aveva innalzato a modello, nonché espressione pura della bellezza plasticoscultorea che negli anni avrebbe sempre più influenzato le ricerche espressive dello stesso Mangiarotti. 

Da lì, a cielo aperto, il visitatore poteva godere l’orizzonte e completare – secondo il programma del progettista (“e sulla grande piattaforma aperta, sotto la copertura sospesa, la presenza dei visitatori stessi è concepita come parte attiva dello spettacolo…”, si legge su Domus 418) – l’esperienza immersiva nel racconto espositivo, guardando “dal vero” le navi che lentamente apparivano e scomparivano nell’entrare e nell’uscire dal porto: vero coup de théâtre a cui si poteva assistere scendendo ulteriormente verso il livello del mare attraverso un’ampia scala, centrale rispetto alla piazza, per ritrovarsi in uno spazio a quota 0 (ancora coperto dallo sbalzo della grande, superba tettoia, che si trasformava per quella lingua di banchina in una pensilina sporgente di 4 m), dentro lo spettacolo della natura. Come sintetizza Giulia Veronesi: “Un fatto di pura poesia, in un colloquio aperto fra l’architettura e il mare che le sbatte contro fino quasi a investirla, fra l’architettura e il cielo”.

Beppe Finessi (Ferrara, 1966), architetto, è professore associato alla Scuola del Design del Politecnico di Milano. È stato redattore di Abitare sotto la direzione di Italo Lupi. Nel 2010 fonda e dirige Inventario, progetto editoriale con cui vince il premio Compasso d’Oro nel 2014.

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