Bjarke Ingels ha paura di morire. In qualche suo racconto, Borges scandisce il passare del tempo come colore che sbiadisce: una tenda che da rossa diventa rosa, nelle finestre di caldo e sole argentini.
I colori. La vernice non dura per sempre: per questo l’architetto danese non la userebbe mai per gli esterni dei suoi edifici, e lo dice nel documentario Big Time, uscito il 3 maggio e proiettato a Milano lo scorso 22 ottobre, l’ultimo giorno del Design Film Festival di Milano. Un uomo, mortale, che fa i conti con il tempo che passa e col bisogno di eternità affidato alle proprie creazioni.
Vanagloria? Forse. Di certo non gliene si può fare una colpa, non è l’unico. Ma soprattutto Big Time racconta la storia di un uomo che viene a patti con i suoi 40 anni, guardandosi indietro e cercando di vedere un futuro che include la fine. Lui se la immagina improvvisa, come altri grandi architetti: Le Corbusier (morto annegato), Gaudì (investito da un tram), Carlo Scarpa (trauma cranico).
Il giorno del suo quarantesimo compleanno, Ingels lo festeggia nello studio di New York. Dall’altra parte del mondo e collegati in streaming, ci sono i giovani architetti della sede di Copenhagen (indossano maschere con la faccia di Ingels), laddove tutto è iniziato. Questo il discorso dell’architetto ai giovani colleghi: “Arriverete anche voi a 40 anni, non c'è niente da fare. Ma credetemi, l’alternativa è pure peggiore”.
Il film documentario segue un andamento cronologico (e oh! psicanalitico): si parte dalla famiglia. Il giovane Bjarke ha lavorato come fattorino, ha fatto mille mestieri manuali, ma quello che non ha mai sopportato è il sondaggista telefonico. Perché, se da un lato i lavori manuali lasciano libero il pensiero, il sondaggista è un abuso sul pensiero: fare domande su commissione, ascoltare le risposte.
Ed è proprio quando, a causa di un trauma cranico, gli viene attaccata la capacità di pensare che Bjarke fa i conti con il fatto che c'è una fine, e non è solo fisica. Perché la vita di un intellettuale finisce quando non si riesce più a pensare. I punti forti del documentario sono quelli in cui l’architetto spiega i progetti con visionarietà e trasversalità: “Se facciamo sempre quello che ci viene chiesto, diventiamo come tutti gli altri architetti. Noi vogliamo dare al mondo qualcosa che non esiste”. Di fronte a un foglio bianco.
Ingels spiega com’è nata l’idea del termovalorizzatore di Copenhagen con le piste da sci, della centrale di Amager Bakke. Quasi da brividi la spiegazione della Piramide di New York: diventa un mix di elementi di più culture, con una straordinaria e nord europea sensibilità per la luce. Belle le sue inquadrature di profilo (ha un meraviglioso naso a forma di squadra).
Chiude il cerchio sulla morte la sua confessione di avere sofferto di claustrofobia durante la tac (il macchinario replica una bara). Il discorso sul Teatro dell’Opera di Sidney conferma la necessità – dell’ego – di lasciare un’opera con cui essere ricordato. Un edificio così potente da essere diventato simbolo di un continente, di un luogo, trascendendo persino dal creatore.
La parte meno esaltante del documentario è l'amore: quasi fosse un obbligo, una necessità sociale. La trasposizione per immagini risulta stereotipata. Del resto, le storie d’amore più interessanti sono quelle infelici. E, lo diciamo a Ingels, come scrive Sandor Marai, sono le sole a essere infinite.
- Titolo:
- Big Time
- Regista:
- Kaspar Astrup Schroeder
- Produzione:
- Sonntag Pictures
- Anno:
- 2017