PNB: Come hanno avuto l’idea del progetto? Come si sono incontrati?
HP: Due membri del gruppo, Susanne e Michael Hecht, i ‘fondatori’, concepirono l’idea di trovare a Dresda un edificio abbandonato, vecchio ma interessante, e di organizzarlo in modo che fosse privo di barriere architettoniche e suddivisibile, permettendo modi di abitare l’edificio diversi dallo standard dei preconcetti di come debba vivere una ‘famiglia’. Volevano un edificio piuttosto vecchio e un progetto ‘verde’. In sostanza proprio la scommessa cui oggi si trovano di fronte gli architetti in materia di edilizia residenziale. In Germania lo chiamiamo eierlegende Wollmilchsau, un “fritto misto”, ovvero un oggetto multiuso, una specie di ‘coltellino svizzero’. Ma non bastava: è diventato ancor più complicato, perché hanno voluto costruire la comunità sulla base di un processo di progettazione attivamente partecipato. Francamente pareva una cosa ingestibile ma, come ho detto, capita di rado che un committente abbia tanta ambizione e tante capacità da perderci tanto tempo. Così, fin dall’inizio, siamo stati molto propensi.
PNB: Di che tipo di edificio si tratta? E come lo avete trasformato?
HP: Un vecchio tabacchificio ottocentesco su due piani, con due ali intorno a un ingresso centrale e a una scalinata, che non era compreso nell’elenco degli edifici tutelati dell’area di Dresden Neustadt. La nostra prima operazione è stata cambiare la tipologia dell’edificio. Abbiamo aperto tre ali intorno a una corte centrale per dare luce, in modo che ogni ala è la parte terminale di un edificio a quattro lati parzialmente organizzato intorno a un centro. Se si eliminano delle porzioni mediane il perimetro si allarga e si ottengono altre facciate esterne. Quindi il risultato sono appartamenti affacciati in ogni direzione: sudest, nord e ovest. Da questo punto in poi tutto è diventato progettazione in collaborazione con i committenti.
PNB: I committenti sono stati coinvolti nel processo di progettazione?
HP: Ampiamente! Ne hanno assunto la guida fin dall’inizio. Una volta stabilito lo schema fondamentale il gruppo si è diviso in una varietà di dipartimenti di progettazione – se vogliamo definirli così – cui ciascuno poteva partecipare e confrontare i propri interessi in stretta collaborazione. Dalle idee pazzesche alle cose mediocri, le abbiamo viste tutte. Il lavoro principale è stato organizzare semplici richieste del tipo “Come prendere le decisioni? Come organizzare le riunioni? Come comunicare e coinvolgere tutti e gestire il progetto nell’insieme?”. Abbiamo capito molto presto che l’edificio era solo una parte del tipo di scultura sociale cui stavamo lavorando.
PNB: Spiegami come è cambiata la metodologia del processo progettuale in questo caso.
HP: Be’, il rifiuto dei progetti che presentavamo è diventato generalmente meno importante. Il lavoro vero e proprio si è trasformato in una massiccia opera di comunicazione, abbastanza convincente da restare aderente al processo progettuale e, d’altra parte, aperta alla partecipazione. Perciò all’inizio abbiamo pensato che si trattasse di una specie di attività di archeologia dell’informazione parallela, che proveniva dai dipartimenti di progettazione, dall’industria e dai committenti, perché c’era un’enorme quantità di informazioni da vagliare. L’archeologia del passato molto recente si chiama indagine di polizia scientifica, un concetto che ci piace molto. Come investigatori abbiamo seguito, raccolto, analizzato i verbali delle ultime riunioni che avevamo organizzato. La riflessione su tutte le norme giuridiche e sul cambiamento metodologico dell’indagine di polizia scientifica è stata l’osservazione più ovvia.
PNB: Approfondisci il discorso sull’indagine di polizia scientifica.
HP: L’espressione inglese per “polizia scientifica”, forensics, viene dal latino forum, cioè “piazza” come luogo dello scambio di idee. Ha sostanzialmente due sensi o direzioni spaziali: uno è l’indagine scientifica sul contesto esistente e l’altro è l’operazione retorica che consiste nella creazione di narrazioni possibili in base alle prove in questione. Ci piace l’idea del progetto d’architettura come costruzione di una comunicazione convincente.
PNB: Quindi come definiresti il ruolo del progettista?
HP: È un processo arduo, perché bisogna aprire alla trasformazione fin dall’inizio la propria mentalità. Siamo molto franchi su che cosa sia solo un’idea da mettere alla prova e che cosa invece sia già più essenziale. Ci comportiamo come investigatori scientifici che analizzano la scena del crimine, raccogliamo, esaminiamo e analizziamo il compito e la situazione stando aderenti ai fatti e cerchiamo di comunicarli senza emozione, cerchiamo di inquadrare il problema. Alla fine siamo dei collaboratori professionali del gruppo, il cui scopo è sviluppare la struttura sociale, il che può significare parecchi sacrifici e parecchia distanza dall’impostazione tradizionale del processo progettuale. C’è in gioco il concetto di controllo, ma questa è un’altra storia, molto lunga.
PNB: Come influiscono sul processo progettuale i nuovi strumenti d’informazione?
HP: Non credo che ci si renda conto dell’immane sfida costituita dai nuovi strumenti d’informazione che hanno invaso ogni aspetto della vita. Mi vengono in mente le parole di Marshall McLuhan e la sua espressione “Il medium è il massaggio”, il fatto che le capacità umane sono state ampliate dagli strumenti tecnici di comunicazione e da nuovi media come gli smartphone, con i quali tutto può essere comunicato istantaneamente, ricostituendo una cultura ‘orale’ globale. È questo fondamentalmente, secondo me, il significato dell’espressione “villaggio globale”. Ma tutto ciò viene dopo l’èra gutemberghiana, dal Rinascimento fino al XX secolo, quando tutto veniva trasferito nel tempo attraverso la parola scritta e il controllo dell’opinione e del potere dipendeva strettamente dal controllo di questi strumenti di comunicazione di massa a stampa, dalla Bibbia al quotidiano. Oggi viviamo con i blog, con Twitter, con le app che trasmettono le informazioni automaticamente e dobbiamo analizzare più a fondo le culture in passato completamente dipendenti dall’oratoria, perché la nostra comunicazione diventa dispersiva, parliamo tutti contemporaneamente. Per avere ascolto bisogna essere convincenti come Cicerone di fronte a un tribunale di cento cittadini di ogni differente classe. Se osserviamo l’epoca d’oro della cultura orale dell’antichità, nella polis greca e nel sistema romano, lo sviluppo dei sistemi democratici dipendeva dalla competenza nel comunicare in pubblico. È un’altra ragione per parlare di metodo di polizia scientifica, perché anche l’architettura è profondamente dipendente dallo stesso meccanismo retorico.
PNB: In che modo questi nuovi strumenti di comunicazione coinvolgono i committenti in qualità di collaboratori?
HP: Francamente se ne avessi idea sarebbe stupendo, ma tutto quel che facciamo è in realtà una sperimentazione. Ciascun membro del gruppo ha le sue idee principali e i suoi interessi, e poi si occupa del resto in modo diverso: telefona, manda testi, manda messaggi e-mail, invita gli altri a partecipare ad altri social network, manda informazioni, sostanzialmente come un amico o un vicino di casa. Quindi è proprio una specie di costellazione di gente che parla tutta assieme, e non si capisce nulla. Perciò tradizionalmente si traccia una linea tra professionale e privato, tra ciò che è permesso e ciò che va oltre. Ma le cose non sono a senso unico: se vuoi usare questi strumenti, vanno in entrambe le direzioni. Quindi il primo passo è la trasparenza, poi l’organizzazione, la programmazione, i portali, in modo che ciascuno possa scaricare tutte le informazioni sul progetto. Il lavoro sulle informazioni diventa importante: la struttura, che cosa c’è sul tavolo per essere discusso, come lo si organizza, come lo si presenta e lo si discute? Se si dà un’occhiata al celebre trattato di Aristotele sulla retorica, è impressionante quanto già conosciamo sulla struttura di questi processi di comunicazione.
PNB: Credi che si stia formando una comunità?
HP: Essendomi formato con professori impegnati nei processi partecipativi dell’architettura degli anni Settanta, penso sempre: “No, non può funzionare! Va contro ogni nozione storica del sapere”. Io penso che questo collegamento alle reti sociali che già esistono sia di importanza globale. In ogni movimento sociale oggi i rapporti acquisiscono tanto interesse per la nostra cultura che non riesco a pensare nulla di più importante per il prossimo futuro. La cosa stupenda è che abbiamo partecipato tutti al progetto e siamo tutti testimoni di questo esperimento.
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