Ricciotti architetto

La retrospettiva di Rudy Ricciotti alla Cité de l’architecture è tutta fatta d'immagini. L’unica eccezione sono i prototipi, esempi del suo lavoro con il calcestruzzo ad altissime prestazioni: straordinari, istruttivi e interessantissimi.


Il calcestruzzo è, come lo definisce Adrian Forty, “uno dei fattori attraverso cui passa la nostra esperienza della modernità”, e ciò perché “realizza la prospettiva della trasformazione della natura, e della trasformazione di noi stessi e dei nostri rapporti reciproci”. Certamente l’architetto francese Rudy Ricciotti comprende e mette in gioco queste particolarità del materiale, trasportando il calcestruzzo dalle sue origini moderne fin nel cuore della postmodernità. E tuttavia il modo in cui questo protagonista di primo piano della nuova generazione dell’architettura francese ha (nel corso degli ultimi venticinque anni) usato il calcestruzzo – e il discorso dell’architettura – è ben lontano dall’essere ben accolto. Di fatto, la più recente retrospettiva di Ricciotti, "Ricciotti, Architecte", aperta dalla Cité de l’architecture di Parigi fino all’8 settembre 2013, sarà certamente oggetto di molta attenzione, se non di discussioni, da parte della stampa.
Vista della mostra "Rudy Ricciotti, architect" alla Cité de l'Architecture et du patrimoine di Parigi. Photo © CAPA/Gaston Bergeret, 2013

Nato nel 1952 a Kouba, in Algeria, Ricciotti si è laureato all’Ecole d’Ingénieurs di Ginevra nel 1974 e all’Ecole Nationale Supérieure d'Architecture di Marsiglia nel 1980. Circa nello stesso anno, aprì il suo studio nel Mezzogiorno francese, iniziando la carriera costruendo ville sulla Costa azzurra. Ma Ricciotti ben presto ottenne alcuni incarichi importanti: lo Stadio di Vitrolles, terminato nel 1994, il suo preferito; il Pavillon Noir di Aix-en-Provence (1994-2004), l’auditorium Nicolaisaal di Potsdam e via dicendo… Di recente, ha lavorato a due importanti progetti culturali francesi: il MuCEM (Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditérranée) di Marsiglia e il dipartimento d’Arte islamica del Louvre. Benché nel 2006 abbia ottenuto il Grand Prix d’Architecture francese, in riconoscimento del suo importante contributo all’architettura, il pubblico ha dovuto attendere sette anni per vedere finalmente la sua prima mostra personale alla Cité de l’architecture.
Vista della mostra "Rudy Ricciotti, architect" alla Cité de l'Architecture et du patrimoine di Parigi. Photo © CAPA/Gaston Bergeret, 2013

Ricciotti è una specie di enfant terrible dell’architettura francese. Non ama particolarmente mettere in mostra il suo lavoro. Amante della polemica, preferisce bersagliare i suoi detrattori in ogni tipo di occasione pubblica e attraverso i suoi scritti (come il suo libro più recente, L’Architecture est un sport de combat, e in La cultura come arma fatale, saggio pubblicato nel 2008). I suoi terreni di scontro sono l’abuso dell’espressione “architettura verde” (che predilige smascherare usando invece il termine “terrorismo verde”) e quello che deplora come una specie di minimalismo alla Koolhaas. Ricciotti insiste anche sull’importanza del lavoro collettivo. Per lui l’architetto non è altro che un direttore d’orchestra, che dipende necessariamente dal lavoro di una miriade di altri specialisti cui ama rendere omaggio.
Vista della mostra "Rudy Ricciotti, architect" alla Cité de l'Architecture et du patrimoine di Parigi. Photo © CAPA/Gaston Bergeret, 2013


Il lavoro di Ricciotti si concentra sull’epidermide e sulla decorazione. È un’architettura che vuole comunicare con gli utenti, soprattutto tramite la sperimentazione delle potenzialità del calcestruzzo. “Con il calcestruzzo si può far di tutto”, afferma Ricciotti, “purché lo si ami, gli si parli e lo si metta in tensione.” Perciò la produzione di Ricciotti non può non fermarsi a riflettere su un certo ritorno alla forte predilezione del Postmoderno per la comunicazione. L’attenzione di Ricciotti al contesto e la predilezione per la continuità e per la prospettiva storica sono anche memori dell’atteggiamento dominante negli anni Settanta e Ottanta.

Vista della mostra "Rudy Ricciotti, architect" alla Cité de l'Architecture et du patrimoine di Parigi. Photo © CAPA/Gaston Bergeret, 2013

La retrospettiva alla Cité de l’architecture è tutta fatta d'immagini: centinaia di immagini di vari progetti scorrono su un vasto schermo panoramico di 7,24 x 2,72 metri, mentre gli acquerelli dell’artista Yvan Salomone, raffiguranti l’architettura di Ricciotti, coprono un’intera parete della sala. E se non bastasse il visitatore può divertirsi a giocare con gli schermi tattili di due terminali alla fine della mostra. L’unica eccezione a questo impero delle immagini – dove né disegni né schizzi originali, né modelli a scala ridotta vengono presentati ai visitatori – sono i prototipi di Ricciotti ovvero le “testimonianze della memoria dell’opera” come all’architetto piace chiamarle. Questi frammenti o stampi a grandezza naturale sono esempi del lavoro di Ricciotti con il calcestruzzo ad altissime prestazioni, un materiale che ha l’odore, l’aspetto e la tattilità del calcestruzzo, ma a causa della sua estrema densità supera di molto le possibilità del calcestruzzo armato. Straordinari, istruttivi e interessantissimi, i frammenti potevano essere sfruttati più compiutamente: perché non usare meglio lo spazio espositivo appendendo questi pezzi al soffitto invece di esporli semplicemente sul pavimento?
Rudy Ricciotti fotografato alla inaugurazione della sua mostra "Rudy Ricciotti, architect" alla Cité de l'Architecture et du patrimoine di Parigi. Photo © CAPA/Gaston Bergeret, 2013

Attualmente alle prese con una varietà di importanti incarichi in Francia, lo studio dell’architetto Rudy Ricciotti non potrebbe desiderare un momento più opportuno per rendere il suo lavoro più visibile ai turisti di tutto il mondo. E tuttavia ci si potrebbe chiedere quale sia il vero scopo di una mostra che sembra concedere così poco al visitatore, a dispetto dei suoi tentativi di seduzione attraverso le immagini. Mentre l’architettura di Ricciotti – piaccia o non piaccia – non lascia indifferente nessuno, la mostra non pare svelare davvero molto sul pensiero e sul modo di lavorare che stanno dietro l’opera di Ricciotti. I visitatori della Cité dovrebbero forse fare un salto al Louvre o, ancor meglio, prendere il treno per Marsiglia (Capitale della Cultura 2013) a vedere il MuCEM, per vivere davvero l’architettura di Ricciotti invece che coglierne soltanto un’impressione superficiale.

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