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Vienna e dintorni

Attraverso il racconto di sei voci importanti collegate grazie al dispositivo geografico, la carta è protagonista della mostra curata da Gianni Pettena alla Galleria Giovanni Bonelli, che inaugura con questo progetto la sua sede milanese.

LA CARTA È PIÙ INTERESSANTE DEL TERRITORIO, recita in stampatello il titolo della prima mostra che il protagonista del romanzo di Michel Houellebecq, La carte et le territoire (La Carta e il Territorio), dedica a questo tema. Jed Martin è artista, fotografo, figlio di un noto architetto parigino da cui sembra aver assorbito, in modo del tutto involontario, una raffinata sensibilità verso la rappresentazione. La mappa è per lui un dispositivo erotico e sublime che solo l'occhio chirurgico della macchina fotografica può riuscire a catturare in alcuni brevissimi, concisi, scatti. La carta è una sintassi non verbale che racchiude in sé qualcosa di profondamente ancestrale, il segno e la più alta sofisticazione intellettuale, il progetto. Mimesi del divino, questo foglio ripiegato su se stesso, come un codice medievale rimanda a tutto ciò che di posseduto l'uomo racconta, il proprio territorio, e a quanto di più inafferrabile la natura gli pone, l'impossibilità di fissare il mutamento. La carta è un'astrazione, per alcuni una riduzione della complessità del modo reale – anche se di questo reale fa parte, anche se lo forma ed informa – per altri indispensabile strumento di comprensione dell'andare – guide routière – per qualcuno oggetto da esporre e collezionare.

La carta è protagonista dell'ultima mostra curata da Gianni Pettena per la Galleria Giovanni Bonelli che inaugura, proprio con questo progetto, la sua sede milanese in via Porro Lambertenghi 6. La carta è al centro del racconto che si dispiega attraverso sei voci importanti, collegate grazie al dispositivo geografico. Raimund Abraham, Hans Hollein, Max Peintner, Walter Pichler, Ettore Sottsass e lo stesso Pettena si rincorrono su un piano immaginifico tra Bolzano e Vienna, in quella Mitteleuropa che li accomuna tutti per provenienza. Ciascuno di questi sei progettisti è nato in un raggio di cinquanta chilometri rispetto agli altri cinque, come se un compasso immaginario avesse segnato, ab originem, i sodalizi intellettuali che formano questa galleria di ritratti umani e professionali. La carta traccia traiettorie inattese di parentele e filiazioni (Peintner e Sottsass erano cugini di primo grado), descrive minuziosamente atteggiamenti comuni e comuni passioni, indaga al microscopio cronache e narrazioni di cui rischiamo, complice la sporadica conoscenza delle fonti, di perdere le tracce.
Vista della mostra "Vienna e dintorni" alla Galleria Bonelli di Milano. Photo Floriana Giacinti
Vista della mostra "Vienna e dintorni" alla Galleria Bonelli di Milano. Photo Floriana Giacinti
Ma la carta ci aiuta proprio in questo processo di ricomposizione degli affetti estetici, quando ci troviamo di fronte a progetti potenti che annunciano e preconizzano l'avvento di un mondo dissoluto, più che in dissoluzione, che oggi ci appare in parte comprensibile anche grazie alle interpretazioni proposte dai sei architetti esposti. Pettena, che ha sempre rivendicato l'artisticità del suo lavoro, nel curare il percorso espositivo lavora per intuizioni giocose, usando quella cifra ironica, anarchica e sorniona che lo contraddistingue. Si sdoppia, come una carta e il suo territorio, passando con agilità fanciullesca dal ruolo di organizzatore a quello di artista invitato; lo fa sempre con grande leggerezza, senza prendersi mai troppo sul serio e, forse per questo, risulta seriamente credibile. La sua carta vincente, perché di carta sempre si parla, risiede nella complicità che instaura con il progetto, con qualunque suo progetto, preso abitualmente di pancia (e cuore) più che di testa. Non perché la testa non ci sia – quella è e resta il territorio da cui attinge suggestioni per il racconto – quanto piuttosto per una liberazione dal controllo ossessivo delle fonti e delle citazioni che dovrebbero dimostrare chi siamo attraverso il sapere di altri e che invece, qui, spariscono fagocitate da un seducente gioco di specchi: qual è la carta e quale, invece, il suo territorio?
Ettore Sottsass jr., <i>Il pianeta come festival</i>, 1973
Ettore Sottsass jr., Il pianeta come festival, 1973
La convenzione della rappresentazione in pianta sembra essere il primo linguaggio con cui Gianni Pettena si rivolge al pubblico: due mappe, leggermente defilate ("I miei lavori li ho messi in un angolo perché volevo dare spazio agli altri"), si rivelano il necessario strumento di comprensione di un display emozionale che attinge dagli anni Settanta per descrivere, ovviamente, un pezzo di futuro. Sono cartografie di un territorio ipotetico che si precisa al centro attraverso la congestione di archetipi architettonici: Nature vs Architecture recita il titolo che, considerata la natura della mostra, somiglia più al nome di una strada tracciata minuziosamente sul piano della carta piuttosto che il difficile percorso del suo territorio. Tra le due versioni la più riuscita è un'entropia meccanicista di ellissi, spirali, cerchi e raggi che potrebbe ricordare il sensuale Ballet Mécanique di Fernand Léger e che strizza l'occhio a quella falsa dicotomia che vorrebbe la natura come elemento esterno alla cultura. Qui il territorio, o per meglio dire la sua rappresentazione, recupera inesorabilmente terreno sul progetto umano fino a compattarlo in una zona franca, nostalgica riduzione della Roma magistralmente descritta e interpretata da Giovan Battista Nolli.
Gianni Pettena, <i>Nature vs Architecture</i>, 2012
Gianni Pettena, Nature vs Architecture, 2012
Un falso contemporaneo, queste due mappe, che si mescola a progetti (alcuni di grande qualità, altri meno incisivi) provenienti dagli archivi ricchissimi dei sei autori. Di Ettore Sottass è esposta la serie, divina, Il pianeta come Festival che perverte il territorio umano raccontando, con ironica eleganza, vizi e piaceri dell'homus tecnologicus. Una mappa che divenne carta sulle pagine di Casabella sotto la direzione di Alessandro Mendini e che, vista qui, recupera l'estesa ricchezza del racconto. Un'infrastruttura voyeurista e gommosa si tuffa con energia nelle acque del fiume Irrawaddy mentre il disegno degli edifici erotici è descritto in pianta come un antico tempio del piacere. Al centro di un canyon, che sembra uscito da uno dei lavori dello stesso Pettena, campeggia solitario e beffardo lo stadio del rock perché, allora, la discoteca non era un tabù progettuale. Mentre le astronavi lisergiche degli Archigram sono precipitate in un paradiso tropicale in cui, di nuovo, la natura sta riconquistando il potere primordiale a discapito di architetture che si comportano come vecchi dinosauri. La navicella spaziale di Kubrick torna ad essere, in questo disegno, un semplice osso, e il viaggio interstellare, privato del proprio territorio, è universale solo sulla carta.
Raimund Abraham, <i>Seven gates to eden</i>, 1976, installazione alla Galleria Bonelli. Photo Floriana Giacinti
Raimund Abraham, Seven gates to eden, 1976, installazione alla Galleria Bonelli. Photo Floriana Giacinti
Universali sono invece le sette versioni di abitazione privata che Raimund Abraham ha progettato nel 1976 come risposte incontrovertibili a quel "post" che due anni dopo sarebbe entrato voracemente nel "moderno". Seven gates to eden, è una sontuosa opera composta di tavole e plastici disposti in una teoria che annulla qualunque territorio per esaltare a pieno diritto la carta. Utopiche, come solo le rappresentazioni progettuali sanno essere, queste dimore divelte da una natura violentissima – sono piene di crepe anche se appena costruite, squarciate da nuclei abitativi più densi – e da una cultura allo sbando – ogni versione ha un'automobile in procinto di schiantarsi contro il muro – inquietano e attirano in una giustezza spaziale che le rende ipnotiche. Il disegno di Abraham è un inverno senza balsamo, preciso e tagliente come se dovesse rivelare ad ogni tratto il vero senso di un territorio realizzato solo nella sua rappresentazione. E fa piacere il confronto quasi diretto, paratattico, tra questa serie e la grande versione dello skyline di NY progettata da Hans Hollein di cui sono esposti alcuni progetti magistrali così come ricercati documenti di viaggio. Dalla locandina della prima mostra che l'architetto viennese inaugurò insieme al collega Pichler, passando per il non-physical environment della pillola rossa e blu fino al plastico scultoreo di Vulcania che nella sua forza centripeta rimanda alla mappa di Pettena collocata dall'altra parte della sala.
Walter Pichler, <i>Kleiner Raum</i>, 1967
Walter Pichler, Kleiner Raum, 1967
Se una mappa dell'ironia aleggia su tutta l'esposizione come minimo comun denominatore delle ricerche dei sei architetti, è possibile rilevare due contrappunti interessanti nei lavori di Max Peintner e Walter Pichler. Il primo presentato attraverso una serie di grandi oli dai tratti netti e violenti racconta un territorio ruvido e romantico, ispirato alle sublimi visioni della natura di Caspar David Friedrich. In queste tele l'artista è anche il protagonista della scena: assorto nella visione di un mare in tempesta o intento a scalare una parete rocciosa (altra analogia con Gianni Pettena il cui ritratto "appeso a una roccia" compare in apertura della sua prima monografia) descrive l'ambiente circostante epurato dalle caratteristiche specifiche del luogo e rimanda, anche lui, ad una carta della montagna perfetta. La stessa forza si percepisce anche nei lavori di Walter Pichler che oscillano tra primordi e archetipi dell'architettura e aprono il ricco ventaglio di suggestioni che il tempo delle stagioni conferisce ai nostri sensi. Una carrellata di suggestioni e impressioni che prosegue nelle diverse sale di questa galleria che fu centro sperimentale di musica e ritrovo di artisti, proprio negli anni in cui i sei architetti citati producevano le opere che possiamo vedere qui esposte fino al 2 febbraio.
Raimund Abraham, <i>Separation from Seven gates to eden</i>, 1976
Raimund Abraham, Separation from Seven gates to eden, 1976
Pensando al lavoro di composizione e incastri che Gianni Pettena ha messo in opera intorno al tema della carta e del suo territorio (Vienna e dintorni) vengono in mente le parole di Paul Claudel quando, parlando della sua amatissima Tokyo, scriveva: "J'ai appris que pour aller d'un point a un autre, il est possible de passer partout excepté par le centre" ("Ho imparato che per andare da un punto all'altro della città, è possibile passare dappertutto tranne che per il centro"). Elisa Poli, co-founder del gruppo di ricerca Cluster Theory
Max Peintner, <i>Fukushima daiichi</i>, 2011
Max Peintner, Fukushima daiichi, 2011

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