Concentrandosi su un aspetto molto particolare del lavoro di Paul Chemetov, la Cité de l'architecture dà vita a una mostra volutamente spartana, con un intento preciso e politico: offrire un filtro importante per rileggere l'intero lavoro del progettista francese, anche quello più spettacolare di architetto e urbanista, senza però celebrarne i segni urbani forti e riconosciuti. L'esposizione tralascia quindi i progetti del grande costruttore dell'epoca mitterandiana – come il Ministero delle Finanze in tandem con Borja Huidobro – per riappropriarsi invece abilmente degli 'umili' progetti di residenze unifamiliari o di atelier, momento importante per comprendere l'architetto e i suoi attacchi all'aspetto retorico dell'urbanistica francese.
Il risultato è un laboratorio, dove si ritrova la spinta etica con cui Chemetov sembra avere lavorato per liberare la città dalla sua simmetria "secondo impero". E ciò succede attraverso gesti semplici che rimuovono la noia del vivere nel progetto standard urbano. In tutti i suoi progetti parigini su grande scala, Chemetov rimuove la visione dagherrotipica della città come un'insulsa copia carbone di un oggetto semplicemente adagiato sul fiume.
Specialista di grandi superfici d'interno urbano, Chemetov ha anche firmato l'indelebile appeal ironicamente chirachiano del Forum des Halles che, stremato da un'usura trentennale, sarà prossimamente rinnovato. Paul Chemetov è sicuramente un maestro nel nascondere contenuti critici con operazioni poetiche, ma molto radicali.
Paul Chemetov: una casa per ognuno
La Cité de l'architecture propone tutta la meraviglia di una storia autobiografica, che corrisponde al sogno abitativo di Chemetov stesso e concorre alla formazione di un processo etico e creativo.
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- Ivo Bonacorsi
- 26 settembre 2012
- Parigi

Questa mostra è sorniona, efficace nel suo emergere direttamente da un souvenir d'infanzia: il libro illustrato da suo padre (il pittore Chem) e molto amato dall'architetto, dal quale prende a prestito il titolo Chachun sa maison. Fu un fortunatissimo gioco-libro per le edizioni du Père Castor, un vero successo commerciale alla sua epoca e ora rieditato da Flammarion per l'occasione. Come l'esposizione, anche il volume è delizioso nel proporre percorsi intrisi di narrativa e contenuto. Nella logica del gioco, lo spettatore – proprio come i bambini – sembra dover ricomporre le situazioni, i personaggi e le storie che hanno portato alla realizzazione dei progetti: committenza, persone e budget; sfide e intoppi per ricomporre la vita degli abitanti coinvolti nell'evoluzione della storia architettonica di un edificio, che si arrivi o no alla sua realizzazione. Così, l'edificio parigino a cinque piani – la vecchia casa grigia, con profilo e altana skylight dove abita il piccolo Jean – tanto assomiglia all'immobile ristrutturato che, dopo tante peripezie per la sua sopraelevazione, diventerà nel 1967 la Casa di rue de l'Epée-de-bois.

In mostra, troviamo tutta la meraviglia di una storia autobiografica, che corrisponde al sogno abitativo di Chemetov stesso e concorre alla formazione di un processo etico e creativo. E oggi, ancora, l'architetto sembra voler giocare una sua sfida proponendo una bellissima raccolta di progetti, di cui ha ricostruito faticosamente la genealogia, attraverso appunti, ricordi, foto riviste e altri materiali davvero minimali. Questa mostra di semplici modelli tradizionali, presentati à l'ancien su tavoli da lavoro di legno, vuole sicuramente invertire la logica della facciata glamour del contemporaneo. È una critica dell'edilizia popolare, di cui è un esperto e che cerca di strappare all'ideologia del budget – e oggi all'orrore della distruzione di ciò che è giudicato mal costruito ma che potrebbe ancora funzionare (vedi l'esempio di Courcouronnes). In fondo, anche con questa mostra, Chemetov si oppone con arguzia all'abitare poeticamente di certa architettura che continua a nascondere gli orrori e gli errori di tanto planning suburbano dell'edilizia odierna.
L'esposizione si riappropria abilmente degli 'umili' progetti di residenze unifamiliari o di atelier, momento importante per comprendere l'architetto e i suoi attacchi all'aspetto retorico dell'urbanistica francese.
Progetti come la Maison Phoenix, studio evolutivo di un prefabbricato dell'industria americana e montato davanti alla Gare de Saint Lazare negli anni '90, quasi un concept antipersonalizzato che, retrospettivamente, si può già leggere come critica all'architettura-immagine quella fatta di superstar e royalties. Eppure, l'idea dell'abitare e del costruire con cui si esce dopo aver visitato questa mostra è fatta di storie e di progetti nella loro forma interpretativa. Raccontano del vissuto e della magia di case che, quando sono allo stadio di concetto, evocano anche il progetto di vita dei loro abitanti e del destino futuro che le attraverserà.
La Maison Schalit è un esempio del metodo di Paul Chemetov, che mescola intimità e rigore. Costruita a Meudon e concepita negli "anni laboratorio" del maggio francese incarna il gioco combinatorio delle costruzioni, il principio di necessità delle bidonville delle metropoli. Il materiale da costruzione e di recupero cortocircuita brutalità ed eleganza nella struttura. Qui il mattone e la trave metallica paiono un testo critico eretto contro l'estetica della villetta di periferia. Un'altra sfida: per meglio esibire la sua logica di prodotto desueto, prima culturale e poi commerciale. A casa completata e abitata, i vicini chiesero all'architetto quando sarebbero state rimosse le impalcature, e questo fu per Chemetov l'unico vero complimento. Lungo tutto il percorso della mostra, le deliziose note redatte da Chemetov funzionano come gli appunti di un terapeuta che, nella sua analisi, cerca di riconciliare la figura dell'architetto con quella del pubblico. E, nel contenuto, esprime la ricerca di un desiderio comune, quello di costruire la consapevolezza dell'abitare.