Karl Lagerfeld direttore artistico della Maison Chanel per celebrare la mitica borsa matelassé, icona della marca da grande ammiratore dell'estetica di Zaha Hadid per le qualità anti e post-Bauhaus, le commissionò il padiglione mobile che doveva ospitare il fior fiore dell'arte contemporanea selezionato e diretto in una fiction avveniristica, immaginata da Fabrice Bousteau direttore della rivista Beaux-Arts. Il prodotto di questi incontri ravvicinati arte-moda-architettura ad altissime quote s'incaglia però dopo i primi due viaggi diplomatici a New York e Hong-Kong e rischiava di ammuffire in un deposito di Malakoff. Ora le 180 tonnellate di questo sinuoso e curvilineo "mitilo futurista", risolti i problemi di appoggio sull'auditorium sottostante, sostituiranno permanentemente l'orrenda tenda mercatino-sala da tè ereditata per le celebrazioni dell'anno dell'Algeria a Parigi.
Fino a qui, realtà e comunicazione finiscono per trasfigurare agli occhi del pubblico il lavoro della Hadid, che si moltiplica esponenzialmente in questa overdose di strategie di recupero della comunicazione-corporate. L'oggetto, l'architettura e la mostra diventano una tautologia e ingenerano un effetto matrioska che rende quasi esilarante persino il fatto che il padiglione ospiti una mostra sui programmi di ricerca recenti dello studio di Zaha Hadid.
Qualcosa suona falso in questo display: si perde la lettura su scala urbana delle splendide e più riuscite creazioni dell'architetto e a poco servono le quattro video proiezioni.
