Siamo saliti sulle scale centrali, quelle al centro del cortile, di alluminio, sostenute da lunghi pilotis – un suo segno tipico, come quelle che coronano il lato corto del comune di Cassino, una sua opera del 1985: lunghi plinti metallici e le passerelle nel vuoto, leggere, come in un interno piranesiano. Servono a togliere peso. Voleva mostrarci i sassi bianchi del cortile interno dell’edificio, dove crescono dei bambù: verde e bianco. E subito dopo i sassi neri, sulla copertura del primo piano – in realtà non ci sono veri piani nell’edificio – che è ricoperta d’acqua.
Quando siamo stati sopra, Massimiliano Fuksas ha preso a camminare veloce sulle passerelle di legno africano, odorose di vernice, e mentre ci mostrava quella nuova vista dell’edificio, mi ha detto a bruciapelo: “È stato quando ho letto l’intervista di Truffaut a Hitchcock, negli anni Settanta, che ho capito: a me non interessa l’architettura che nasce dall’architettura, ma dal cinema. La mia architettura è un montaggio. Detesto i piani sequenza, alla Wenders”.
Mentre lo afferma icasticamente, indica col dito i riflessi dell’acqua sul lembo superiore della copertura – in realtà non ci sono tetti nel Centro Sviluppo Prodotto della Ferrari, a Maranello. Il barbaglio di luce decora con le sue luminescenze a forma di onda il bordo esterno della copertura: la luce divora il sottile margine bianco, e lo ottunde. L’architetto si piega verso il pelo dell’acqua e con un gesto energico agita i quindici centimetri del liquido trasparente: sopra, le onde si specchiano più veloci.
Torniamo indietro e gli chiedo del montaggio. Accenna a Marnie, il film di Hitchcock, dove Tippi Hedren interpreta la parte di una ladra di cui s’innamora il suo datore di lavoro: “A un certo punto la scena è ambientata nella città dove vive la madre di Marnie. Si vede una strada in discesa e, in fondo, una nave. È realizzata in un interno; è tutto falso, ma la nave là in fondo ci informa che siamo in una città di mare. Poi la scena cambia di colpo: siamo davanti alla porta della casa. Questo è il montaggio: non m’interessa quello che succede nel frattempo. Non c’è bisogno di raccontarlo”.
Da un certo punto in poi – diciamo dall’inizio degli anni Ottanta – l’architettura di Fuksas è cambiata. È come se fosse uscita dall’architettura stessa per abitare un altro luogo; continuava a citare, ma il segno era un altro: più secco, più deciso, a tratti persino eclettico. Ogni architettura era per lui come fare un film. Ma cosa vuol dire fare un film? Scriverlo, girarlo e soprattutto montarlo. Michael Ondaatje è uno scrittore canadese; il suo libro più noto è Il paziente inglese (1993), da cui è stato tratto un film che ha vinto diversi premi Oscar. Durante le riprese Ondaatje ha conosciuto un personaggio straordinario, Walter Murch. Murch monta i film, le immagini, ma anche la musica e i suoni con le immagini.
Lo scrittore è stato colpito da lui, così da decidere di registrare una serie di conversazioni, che sono diventate un libro: Il cinema e l’arte del montaggio (Garzanti). Murch spiega quello che Hitchcock ha praticato. Lo fa distinguendo tra il cinema – e l’arte – occidentale, Ejzenstejn, e il cinema – e l’arte – orientale, Kurosawa: “Mentre Ejzenstejn monta, costruisce la scena, Kurosawa toglie e lima. La scena viene rivelata in un film di Kurosawa, mentre in quelli di Ejzenstejn, e in tutta la tradizione occidentale, viene costruita”.
Tutto dipende dalla macchina da presa: il regista russo inquadra tutta la scena, mostra l’intera coreografia, mentre nel film giapponese Kurosawa inquadra un piccolo particolare, per esempio l’angolo di un tavolo, e lo usa per suggerire l’intero ambiente. Il montaggio è stato inventato intorno al 1903; nasce, non solo per una ragione tecnica, dalla filosofia tedesca, da Kant, da Hegel, da Marx, dice Murch.
Sono stati i marxisti russi, sostiene, a sviluppare l’arte del montaggio. Mentre siamo al piano alto, dove c’è il laghetto di sassi neri, chiedo ingenuamente a Fuksas se c’è qualcosa di giapponese in quei riflessi e nei sassi neri, nelle passerelle di legno che mi ricordano tanto i giardini di Kyoto. Mi guarda perplesso, come se non avesse capito, poi si gira e mi indica i tagli che l’edificio produce nel paesaggio. La parte alta del Centro, un lungo piano che si estende verso il davanti, sull’ingresso, è sospeso per sedici metri nel vuoto – una lama di vetro e metallo in aggetto proprio sulla alta porta d’accesso.
Sul dietro, e sul fianco, invece, collima con la parte inferiore, da cui si rialza come un corpo a sé, poggiando su una sequenza di plinti di metallo nero, quasi invisibili, così da imprimere al corpo dell’edificio il senso di una sospensione. Vista da sopra, dal piano da cui si innalza, partendo dalla lama di acqua, l’edificio è una sorta di cornice nera, spessa ma anche sottile, che definisce il fuori. Sono finestre orizzontali, in cui le case intorno, le altre architetture della fabbrica-Ferrari – per esempio la galleria del vento di Renzo Piano – o i prati, diventano come delle fotografie orizzontali. Assomigliano a certi paesaggi emiliani di Ghirri.
Il paesaggio è fuori – tutto-è-là – ma è anche dentro – è una immagine appesa nel vuoto. In questo modo l’edificio appare e scompare, c’è, ma non lo si vede. È vero che l’architettura di Massimiliano Fuksas è un montaggio – il dettaglio c’è, tuttavia non è importante – alla Ejzenstejn, e tuttavia ha anche qualcosa di giapponese, alla Kurosawa: l’intero non lo si scorge, non si riesce a cogliere del tutto, se non dal particolare. Eppure non ci sono veri particolari, o almeno non si lasciano vedere come tali, come accade invece in Carlo Scarpa. Con un certo orgoglio l’architetto dice: “È un edificio che non si può fotografare”.
È vero, perché non c’è un’immagine dell’insieme, un punto di vista privilegiato, perché è il montaggio delle parti che conta, fotografarle non fornirà mai un’immagine complessiva dell’edificio: una bella sfida per chi si mette dietro la macchina, una sfida da accettare, come quella di capire questa architettura. Vi predomina l’effetto di superficie (come non pensare a Gilles Deleuze, il più influente filosofo dell’architettura della seconda metà del XX secolo, alla sua lettura dell’Alice di Carroll in La logica del senso).
Sono lame di luce, riflessi, barbagli, filtri, specchi: superfici prive di profondità. “L’architettura non rifà il mondo, lo fa vedere”, dice Fuksas. Questo è un labirinto, ma un labirinto aperto, disegnato nell’aria. La stessa architettura del Centro è aria circondata da pareti trasparenti: lo spazio abitato da chi vi lavora è solo un po’ più opaco del resto, visivamente più denso. L’architettura come un modo di apparire della luce? Forse. Pellicole, probabilmente, come nelle torri di Vienna o nell’îlot Candie-Saint-Bernard di Parigi. Chi ha progettato il Centro della Ferrari – non certo al tavolo da disegno, seduto davanti al foglio bianco – voleva suggerire un’idea dell’architettura come piano flottante, come sospensione.
Non è la leggerezza aerea di Italo Calvino, quella che toglie peso al mondo, bensì la leggerezza della pensosità: l’architettura come pensiero della gravità, quella che grava in ogni forma costruita, che la tiene a terra, ma al tempo stesso la protende verso l’alto, di lato, nel vuoto. Il pensiero non solo come lievità, ma come forza, resistenza, e persino pesantezza. Qui, a Maranello, qualcosa eccede nello spazio il suo stesso destino.
