Il Sahara è come il mare. Unità fluida per antonomasia, non conosce barriere naturali di sorta e i suoi abitanti, fino all’avvento della colonizzazione europea, erano abituati a considerarlo un unicum che si poteva attraversare a piacimento, con le oasi e i rari insediamenti urbani, centri del traffico commerciale, come esclusivo punto di riferimento.
Ora, la costruzione di un elemento artificiale in mezzo al nulla porta a compimento una lunga operazione, iniziata con l’introduzione del concetto di confine che le potenze coloniali disegnarono astrattamente sulla carta nel XIX secolo per definire le reciproche aree d’interesse. Il muro sancisce, per ora, la trasformazione definitiva di quella fluidità in una realtà statica e immobile.
Costruito innanzitutto a scopo militare, il muro raggiunse immediatamente gli obiettivi per il quale era stato costruito: da guerra di movimento, combattuta in lungo e in largo tra le dune della vecchia colonia spagnola, il conflitto tra Marocco e Polisario (Fronte popolare per la liberazione del Saguia el Hamra e del Rio de Oro) si trasformava in una lenta e infruttuosa guerra di posizione, con i due contendenti appostati su un lato e sull’altro della barriera.
Talmente infruttuosa (perché impossibilitata a celebrare un vincitore) da sfociare in una tregua armata, dichiarata nel 1991 e ancora oggi in vigore, con le due parti che si spiano e si controllano, dispiegando ingenti quantitativi di uomini lungo il fronte. Ma, se le conseguenze sul breve periodo ricadevano esclusivamente in ambito militare, ben più ampi sono i risvolti della presenza del muro per ciò che concerne la dimensione geopolitica, la concezione dello spazio, il modus vivendi delle persone.
Il muro trascende dall’essere uno strumento difensivo per divenire, senza alcuna sanzione ufficiale da parte degli organismi internazionali preposti a farlo, un confine vero e proprio che definisce due aree ben distinte e le immobilizza, non potendo essere, per forza di cose, attraversabile. A Ovest, nei 265.000 km quadrati controllati dal Marocco e corrispondenti alla quasi totalità dell’antico Sahara Spagnolo, la vita scorre intorno alle città della costa, cresciute a dismisura negli ultimi trent’anni, dove si intensifica lo sfruttamento delle risorse naturali là presenti (fosfati, pesca e, negli ultimi tempi, anche il petrolio, in mare) e l’immissione continua di manodopera d’origine marocchina stanziale rafforza il processo di urbanizzazione dell’area, iniziato già in epoca spagnola.
Ma è a Est, nella piccola e pressoché disabitata fascia controllata dal Polisario e, soprattutto, nei campi profughi di Tindouf, che i segni del cambiamento sono ancora più evidenti. In una delle zone più ostili del mondo (50 gradi centigradi di media in estate), prima esclusivamente attraversata dalle rotte commerciali, ma mai luogo d’insediamento, da trent’anni vivono duecentomila persone in condizioni a dir poco disagevoli.
Divisi in quattro zone, che recano simbolicamente i nomi di quattro città del “Sahara-Ovest”, gli agglomerati di tende e case in mattoni di sabbia non si trasformano in habitat urbani veri e propri perché non ne esistono fisicamente i presupposti: il territorio è privo di risorse; l’unico lavoro possibile rimane il contrabbando con la vicina Mauritania; la pastorizia viene esercitata esclusivamente come ripetizione di un costume innato e non certo come attività di sostentamento.
Ma la provvisorietà in un certo qual modo è rivendicata dagli stessi saharawi, sospesi nell’eterna attesa del ritorno alla patria d’origine che si trova al di là del muro. “Ritorno alla patria” è un concetto che apre però una contraddizione, come evidenziano chiaramente le testimonianze riportate in questo servizio: da un lato, il muro chiude definitivamente le rotte secolari della vita nomade e costringe alla sedentarietà migliaia di persone che rimpiangono il tempo in cui andavano “dove c’era l’erba”.
Dall’altro, il cemento che tiene insieme i profughi è proprio la condivisione di un’identità, l’appartenenza alla ‘nazione’ saharawi, una nazione che ha bisogno di confini ben precisi, quelli disegnati dal colonizzatore spagnolo. Una sorta di scissione dove coesistono la nostalgia del nomadismo, ereditata di generazione in generazione, e l’occidentale amor di patria. Una provvisorietà che, in ogni caso, non è destinata a durare in eterno: o una soluzione di natura politica abbatte il muro, cancellando d’un colpo la trentennale vicenda dei campi, o è probabile che la guerra torni ad insanguinare il deserto.
