Verso il Mondo delle Cantine
Dietmar Steiner
Dopo i musei e le boutique alla moda, dopo il Guggenheim e Prada, un nuovo e inatteso tema sembra appassionare l’architettura, che da un po’ di tempo pare sempre più coinvolta negli stili di vita più aggiornati. Potremmo dire che oggi quasi tutti gli architetti di grido nel mondo creano o progettano una cantina o un vigneto; o che, comunque, si sentono architettonicamente legati al tema ‘vino’. Il fatto è che quasi tutti gli architetti di una certa fama si autoproclamano, chi più chi meno, intenditori di vini. Non è quindi un caso se negli ultimi anni le strade del vino e dell’architettura si sono incrociate. Anche perché, in fondo, i due prodotti sono molto simili nei paradigmi che strutturano la loro cultura tecnica. I vini mediocri, per esempio, possono essere paragonati all’atto quotidiano del costruire. Solo quando si abbandona la mediocrità del quotidiano si creano infatti le basi per una cultura enologica e architettonica che raffini la produzione e la percezione. Anche se è evidente che la gran parte della produzione edilizia mondiale non è equiparabile a quella vinicola, essendo semmai più calzante il paragone dell’architettura con la produzione della birra in lattina e con l’industria delle bevande analcoliche. In uno stadio invece avanzato della cultura enologica e architettonica, si registra una sinergia tra produttori, critici e consumatori. I livelli di qualità di un prodotto vengono definiti da esperti intenditori - i critici - i quali non possono seguire nessun criterio oggettivo, bensì il proprio giudizio arbitrario, frutto del loro sapere e del confronto con altri prodotti simili. La critica di architettura determina il valore degli architetti e delle loro opere realizzate, proprio quello che i critici di enologia fanno con i prodotti dei viticoltori. E malgrado si continui a gustare il prodotto delle grandi marche, caratterizzate spesso per una produzione traboccante, si continuano a cercare nuovi prodotti, ancora sconosciuti. Da questo punto di vista, critici di enologia e di architettura hanno un comune denominatore. Scetticamente anarchici nei confronti dei grandi produttori dominatori del mercato, sono alla continua ricerca di piccole zone e di idee innovative che possano dar vita a nuove culture e nuove specialità regionali. Sono loro, insomma, a fornire ai consumatori una guida nel processo conoscitivo della qualità, tracciando un piccolo sentiero di raffinatezza nella giungla del consumismo. Prendendo spunto proprio da questo dialogo fra cultura enologica e architettonica, Steven Holl ha sviluppato il progetto di un Padiglione del vino. Lo scandalo del vino nel 1985, il conseguente crollo dei vini a buon mercato, il cambio generazionale dei viticoltori, sono alcune delle ragioni che hanno fatto nascere nell’Austria di oggi una nuova, piccola e raffinata cultura enologica, con qualità e prestazioni nel frattempo riconosciute anche a livello internazionale. Su queste basi è nata l’esigenza e l’idea di alcuni viticoltori e investitori del Langenlois, la più importante zona viticola dell’Austria, di dar vita a un progetto speciale chiamato ‘Loisium’. Le sue belle e antiche cantine risalgono addirittura all’epoca gotica e formano nel territorio un gigantesco labirinto, rimasto finora in disuso. Questo “mondo di cantine” verrà presto aperto al pubblico, con un percorso impostato secondo criteri sensoriali-didattici, e combinato a un progetto turistico sviluppato dallo studio svizzero Steiner-Sarnen, specializzato in allestimenti museali. Nel cuore dell’affascinante paesaggio dei vigneti di Langenlois, il Centro per visitatori diventerà un segnale architettonico chiaro per introdurre il pubblico a questo mondo di cantine sotterranee. E proprio il fatto che gli investitori abbiano scelto Steven Holl come artefice ideale del progetto conferma il livello culturale raggiunto dall’odierna viticoltura. All’inizio si stentava a credere che Steven Holl si sarebbe effettivamente reso disponibile per creare un piccolo padiglione per la piccola e – fino ad allora – sconosciuta Langenlois. Ma proprio a questo punto si è attivato il matrimonio fra architettura e cultura vinicola. Durante una visita alla cittadina, Steven Holl restò affascinato dal luogo, dall’atmosfera primordiale delle vecchie cantine, e si entusiasmò per la multiforme cultura enologica locale. Infatti – è stato solo un caso? – muovendosi dalla sua patria nel Langenlois, il Grüner Veltliner (un vino locale dal gusto simile allo Chardonnay, ma più sensibile e diversificato) è nel frattempo diventato un vino di culto a Manhattan. Nel Centro per visitatori, Steven Holl traspone la struttura del mondo di cantine sotterranee in un concetto architettonico. Il padiglione diventerà anzi il fulcro di questo “piccolo mondo”. Holl parte dall’idea di un quadrato astratto di 25x25 metri, alto 13 metri, e lo fa ruotare di 5 gradi verso l’entrata delle cantine. Nasce così una scatola minimalista di cemento, dotata di pareti volutamente sottili (soli 25 cm di spessore ) e di grandi campate che sfidano i principi della statica e della tecnica delle costruzioni. Il tutto grazie alla collaborazione con Franz Sam e Irene Ott-Reinisch, gli architetti locali con i quali ha potuto realizzare questo concetto e affidarlo alle imprese edili della zona. Vera e propria proiezione orizzontale delle cantine sottostanti, la scatola è percorsa da brecce e aperture, ed è rivestita all’esterno con una sottile pelle d’alluminio e con dei pannelli di sughero all’interno. Il padiglione di Steven Holl rappresenta in realtà l’atrio di questo mondo sotterraneo e affascinante; superato un bacino d’acqua, si prosegue per un breve tratto attraverso un vigneto, raggiungendo infine con un ascensore una suggestiva scenografia sotterranea: un labirinto di 800 metri in cui si perde l’orientamento. Stando nel labirinto, ci si stupisce alla vista del bacino, che si intravvede grazie ad aperture di cristallo, prima di tornare nuovamente al padiglione e al suo impressionante volume aperto su tre piani. L’atrio verrà usato per ospitare eventi, oltre che per un negozio, una vinoteca e un caffè. Il Centro visitatori Loisium rappresenta un unico e significativo monumento all’odierno matrimonio tra architettura e sapere enologico: un matrimonio all’insegna dell’attualità, della cultura dei sensi e del gusto. Ma il progetto Loisium non finisce qui. Già quest’anno si inizierà a costruire un piccolo e raffinato albergo che, collegato al Centro visitatori, rappresenterà il punto conclusivo di questo concetto odierno della cultura del vivere il tempo libero. O, come lo definisce in modo americano-pragmatico lo stesso Steven Holl: “Il mondo delle cantine è ‘underground’, il padiglione ‘in the ground’ e l’albergo ‘over the ground’”.
Steven Holl e il Nichilismo
Pierluigi Nicolin
All’inizio dell’Ottocento il termine ‘nichilismo’ si risolveva essenzialmente nell’accusa rivolta alla filosofia nata con Kant di dissolvere il mondo in pura apparenza, di destituirlo della sua consistenza. La parola veniva usata per nominare la concezione secondo la quale soltanto l’ente accessibile alla percezione sensibile, cioè l’ente che viene esperito di persona, è reale e nient’altro. Con ciò – con un pensiero appunto ‘nichilistico’ – veniva negato tutto quello che è invece fondato sulla tradizione, sull’autorità e su una validità altrimenti determinata. Ma l’idea del ‘nulla’ può svolgersi anche in altre direzioni. Può, per esempio, assumere una tonalità orientaleggiante, suscitando tramite le virtù dell’assenza il sentimento contemplativo del sublime. Qualche anno fa, avevo affrontato questa questione proprio in occasione della presentazione da parte di Steven Holl delle sue case giapponesi di Fukuoka, nel momento in cui Holl proponeva una connessione tra la sua opera, lo Zen e “la visione dell’universo in un granello di sabbia”. Avevo in quell’occasione espresso la mia ammirazione per i risultati della sua architettura, ma anche alcune perplessità riguardo una certa forzatura della visione, o un certo misticismo, invocando la pretesa di essere gratificato da qualche asserzione proveniente dal logos occidentale. In quel momento, forse deluso dall’esperienza della grande scala, Steven Holl presentava il suo progetto giapponese ‘soltanto’ attraverso belle immagini di dettagli e di eventi minimi: la vasca d’acqua colpita dalle prime gocce di una pioggia in arrivo, la forma di un gradino contemplata con atteggiamento estatico, o un effetto di luce colto in un istante speciale. Da allora, le cose sono andate molto avanti e – anche in architettura – il nome ‘nichilismo’ significa essenzialmente “di più”. Adesso posso capire meglio dove volesse andare il giovane architetto americano che allora sembrava incorporare le caratteristiche delle due Coste (tradotte in termini europei, queste caratteristiche corrispondono pressappoco alla nostra opposizione nord/sud). La sua architettura ‘fenomenologica’ e, ancor più, le sue descrizioni oscillavano tra il gusto ingegnoso della riflessione teorica newyorkese e lo svolgimento raffinato-edonistico di tematiche delle avanguardie storiche; uno svolgimento abbastanza acquisibile da architetti italiani edotti dall’esperienza di Carlo Scarpa. Peraltro, Steven Holl non sembrava implicato nell’attitudine cabalistica e tutta mentale di un Eisenman alle prese con la dissoluzione dei supremi valori dell’Architettura, quanto piuttosto interessato a soffermarsi sulla sensazione. Per Peter Eisenman, il riconoscimento della mancanza di senso dell’Architettura genera una volontà di distruzione creativa che è pur sempre volontà – dunque, non un annientamento assoluto che sarebbe una rinuncia alla volontà stessa, e quindi ancora un fare in cui si ha a che vedere con il logos. E, pur non credendo nelle precedenti categorie di ragione, che si ritiene riferite a un mondo puramente fittizio, cerca un passaggio verso un al di là. Neppure per Steven Holl il “di più” scaturisce da una mera mania di cieca distruzione e di vanagloriosa innovazione; scaturisce piuttosto dalla necessità di cercare l’attraversamento di una situazione nella quale l’architettura appare priva di valore, ma esige al tempo stesso un nuovo valore. Possiamo chiamare ‘architettura’ la forma assunta da questa esperienza, dovuta all’abbandono dell’ormai superata categoria dell’architettonico in un attraversamento che scaturisce dalla consapevolezza della fine di un mondo e dalla percezione che qualcosa di nuovo è imminente. In Steven Holl, quel mondo sensibile su cui viene ad applicarsi la sua esperienza subisce una sorta di trasmutazione. Oltrepassata la fase Zen della ricerca dell’assoluto attraverso la sensazione, si apre la possibilità di nuove congetture e di anticipare le forme di un ambiente transgenico, nel convincimento che – se pure le scene del teatro del mondo come sono ancora rappresentate convenzionalmente dall’architettura possono rimanere per qualche tempo quelle vecchie – il dramma che si sta recitando è già un altro. Insomma, se la precedente smaterializzazione poteva sembrare un tentativo di operare una liberazione dai valori sinora validi nel mondo sensibile, siamo ora di fronte alla ricerca di una liberazione che realizzi una decisa trasvalutazione di tutti questi valori. L’Architettura, sottoposta alla sua critica decostruttiva più radicale, messa in discussione nei suoi valori tradizionali – fondati sull’ordine orizzontale e verticale, la gerarchia, la durata, la rappresentazione… in sintesi, i caratteri della proiezione immaginaria della sua ‘forma’ – cerca ora il confronto o l’assimilazione con i processi morfologici della natura. La sfida comporta l’attraversamento, sia pure simbolico, di un confine forte e antico come quello tra natura e artificio: “tra ciò che è presente dischiudendosi da sé e ciò che è presente essendo stato fabbricato”. Pur spogliata di categorie fondanti, l’architettura non può abbandonare la sua consistenza fisica. L’opera architettonica resta pur sempre una manifestazione di volontà di potenza nei confronti di una natura che altri vorrebbero intoccata, mentre l’architettura – per essere – necessita di un corpo, anche se si vorrebbe far vivere questo corpo (o, per lo meno, considerarlo un alcunché di diveniente in una natura potenziata). I tentativi di operare uno sfondamento dei limiti tradizionali tra natura e artificio avvengono ormai su un territorio non più controllato dal precedente sistema di vincoli disciplinari e non possono che determinare un intreccio di prospettive, di posizioni e di valori in un procedere multiplo. Inserita in questa corsa alla trasvalutazione, anche l’architettura di Steven Holl ha abbandonato di recente i modelli della ricerca antecedente, operata sulle figure del moderno, per avventurarsi in un confronto diretto con le figure del paesaggio e della natura. Il mondo della natura è inteso ora come un corpo e il paesaggio è una ‘pelle’ su cui intervenire in vario modo. In questo senso, l’architettura assume il compito di una riprogettazione paesaggistica. Che può servire per fini diversi: a sviluppare un remapping, riprogettando il paesaggio in modo da rendere visibili figure nascoste o non rese esplicite; ad adeguare un paesaggio esistente a una nuova sensibilità; a mescolare o rovesciare la classica opposizione natura-artificio investendo l’edificio di un’impronta organica, sensitiva e spingendo il paesaggio al ruolo di fondale fisso, elemento di riferimento alle mutevoli dinamiche del manufatto architettonico. Nel caso della residenza per studenti del MIT, dove l’edificio è il paesaggio dello skyline urbano, assistiamo al tentativo di disporre in un unico oggetto antistante le due tematiche attraverso una serie ingegnosa di salti di scala e la sovrimpressione di figure. In questa ricerca di uno scambio tra architettura e ambiente, le maschere tettoniche di Holl sono confrontabili a certe ricerche di Juan Navarro Baldeweg, come ha ben spiegato Sandro Marpillero analizzando la Cappella di Sant’Ignazio della Seattle University del primo, in parallelo con l’ ampliamento e biblioteca del Woolworth Centre of Music della Princeton University del secondo. Con la titolazione duchampiana della Turbulence House in costruzione nel New Mexico, Holl dichiara di voler realizzare un’installazione che lavora con i concetti della turbolenza atmosferica e i cambiamenti della luce. In questo caso la reazione con i clamorosi fenomeni atmosferici della regione è il tema dell’edificio, e l’informe scudo metallico vuole essere una conformazione generata direttamente – senza mediazioni con la tradizione architettonica locale – dall’ambiente speciale del deserto del New Messico. Nel Centro visitatori Loisium, pubblicato in queste pagine – una struttura di accoglienza in una zona vinicola nei pressi di Vienna – la situazione è invece determinata dall’esistenza di una cantina dotata di un magnifico sistema di antiche volte sotterranee nella contigua cittadina di Langenlois e dai campi con i filari delle vigne in cui albergherà un hotel, anch’esso di Steven Holl. Il Centro, disposto nel vigneto tra la cittadina e l’albergo, comprende un wine shop, un negozio di souvenir, una sala riunioni, uffici e spazi per eventi, e fa anche da ingresso alle volte delle cantine, raggiungibili tramite un percorso sotterraneo ribadito in superficie da una specchiatura d’acqua. Il progetto nasce da una lettura creativa della situazione: l’idea di incidere il nuovo volume stereometrico con ‘iscrizioni’ che si rifanno alla geometria delle antiche volte, svolge una tematica analoga a quella affrontata da Juan Navarro nel costruire una replica delle grotte di Altamira, in Spagna, non più accessibili al grande pubblico. E proprio questo confronto mi aiuta a precisare la posizione di Steven Holl nell’attuale corsa alla trasvalutazione dei valori dell’architettura. Nel caso di Navarro, vi è tutta la perplessità di dover duplicare ‘realisticamente’ un luogo ormai inaccessibile e il suo sforzo è di trasformare in ‘concetto’ questa replica. Per introdurre all’emergenza dell’oscurità delle grotte fedelmente riprodotte, Navarro investe di turbolenze lo spazio dell’involucro che circonda la duplicazione del celebre monumento, come se un flusso, un fluido atmosferico, penetrasse da un infinito proveniente dall’esterno. Il proposito di realizzare una copia in prossimità dell’originale, cercando di non confonderla con l’originale autentico, introduce nel progetto la tematica dello ‘specchio’ come modello di relazione tra il reale e il virtuale. A Langenlois, Steven Holl segue invece un percorso più volontaristico e, in un certo senso, più criptico. Le grotte di Langenlois sono visitabili e restano l’attrazione del sito: così l’architetto affronta il tema costringendosi a ‘non’ costruire una nuova architettura nel mezzo del vigneto. Inoltre deve evitare che il nuovo volume possa fungere da struttura vicaria, rendendo superflua la visita delle grotte. Tutto concorre a trovare una via per la quale il nuovo intervento rimanga per così dire indecifrabile nei termini di un codice ovvio dell’architettura. xAssicurata alla campagna, al vigneto, la missione di rappresentare l’aspetto colonialistico dell’architettura con il suo ordinamento geometrico, il nuovo edificio cerca allora di rappresentare uno stato di natura affidandosi ad un’immagine tellurica antecedente all’instaurarsi di questo stesso ordine. E – di conseguenza – non è un caso che il rinvio alle antiche volte, alla caverna come archè dell’Architettura, non venga svelato dall’attuale rappresentazione architettonica.










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