Un nuovo sepolcro per Chernobyl

Nella storia dei più catastrofici incidenti atomici le radiazioni restano la minaccia peggiore. Mark Irving racconta la lotta senza fine per contenerle. Fotografia di Mark Irving.

Chernobyl, il cui nome compare in quella triste lista di luoghi avvelenati che comprende Bophal, Hiroshima, Nagasaki, il porto di Minsk e le coste sempre più vaste di un Caspio che recede senza sosta, è pressoché deserta. Gli abitanti rimasti, principalmente gli anziani, non sanno dove andare. A quanti sono partiti è stato raccomandato di non avere figli, perché la radioattività s’insinua a modificare, non vista, il fato dell’uomo: può aspettare anche per generazioni prima di mostrare i suoi effetti. Guardando ai campi intatti, alle siepi verdeggianti e ai floridi giardini, riesce difficile credere di trovarsi a calpestare una terra maledetta, zeppa di stronzio, cesio e di altri minacciosi elementi della tabella periodica di Mendeler.

Accanto al centro accoglienza della centrale nucleare, la sagoma della testa di Lenin spinge ancora il profilo di granito verso il cielo. Vista sullo sfondo dei tralicci dell’alta tensione che circondano il complesso, i cui cavi sono fermi da diciassette anni, rimane il simbolo di un’ideologia decisa, nella quale l’energia occupava un tempo un posto centrale. Una mitologia, ancora oggi, leggibile nelle vetrate istoriate che delimitano ciascun pianerottolo delle scale che conducono alla sala conferenze del primo piano: astronauti che spuntano da ombre blu, fanciulle coi palmi armati di saette arancio e rosso, baffi vitrei di ingegneri e scienziati che si rizzano vigorosamente contro provvidenziali venti di silicato. Nessuno però più crede a queste storie, si dubita che alcuno mai lo abbia fatto.

All’entrata della sala conferenze, dove un rivelatore di contaminazione è in attesa di determinare quanto radioattivi si sia diventati, si torna bruscamente alla realtà. Le dita strette sulle imbottiture laterali, i piedi sulla bilancia, prima di procedere si è pesati, ispezionati e misurati.

A Chernobyl tutti sono contaminati. È soltanto una questione di percentuali. Nell’anticamera della sala conferenze, un lato è occupato da un plastico con spaccato del reattore nucleare, il cui cuore è stato minuziosamente sezionato per renderne più comprensibile il funzionamento. Il 27 aprile 1986, la versione originale di quest’apparecchiatura dall’aspetto delicato fu sventrata da un’esplosione che riempì l’aria di un tasso di radioattività dalle trenta alle quaranta volte maggiore di quello delle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Ne risultò una nube che sparse le sue polveri letali su centinaia di migliaia di persone in Ucraina, Bielorussia e su gran parte del resto d’Europa. Oggi, mentre la nube si è dissolta ormai da anni, le storie delle famiglie ucraine e bielorusse che stanno ancora affrontando i suoi effetti attendono di essere raccontate.

Quando si studiano le immagini del Reattore 4 dopo l’esplosione, ci si rende conto con sorpresa che l’adiacente Reattore 3 era rimasto pressoché intatto. Quel che catturarono le telecamere degli elicotteri che ebbero il destino di sorvolare il primo era un enorme squarcio: sparito il tetto, le pareti liquefatte, la tremenda violenza dell’esplosione era sotto gli occhi di tutti. Il bilancio immediato delle vittime fu contenuto (trenta addetti e un manipolo di pompieri, arrivati per primi sulla scena ad affrontare un incendio che, come un’esca crudele, avrebbe portato loro la morte certa e un brutto monumento lungo la strada che conduce a Chernobyl). Quanto alla gente del luogo, ci fu dapprima incertezza sul da farsi. Intimoriti dalla tremenda esplosione, gli abitanti della minuscola frazione di Prybat, situata proprio in direzione della nube che si andava formando, si radunarono davanti alle porte delle loro abitazioni per osservare quell’insolito tramonto. Più tardi sarebbe stato detto loro di scappare, di abbandonare ogni cosa in tutta fretta.

Mentre gli abitanti se ne andavano, all’interno del Reattore 4 si formavano inedite combinazioni chimiche. Conosciute col nome di “materiali contenenti propellente” o FCM (Fuel-containing materials), avevano l’aspetto e il colore della melassa. Le varie parti del reattore davano vita a forme uniche nel loro genere: ceramiche color marrone dalla vasca di sgrassaggio, maioliche nere dalla sala 304/3, lava metallica multicolore dal condotto di distribuzione del vapore, fragili schegge lucenti un po’ dappertutto. Altre, più sinistre formazioni, catalogate come “materiale lavico contenente propellente” o LFCM (lava-like fuel-containing materials), richiesero di estendere il vocabolario creato dagli scienziati nel tentativo di descrivere quanto andavano scoprendo.

Da Chernobyl scaturì così una nuova e feconda serie di studi specialistici nel campo della geologia, dell’archeologia e della tassonomia. Fotografare in situ queste chimere chimiche si rivelò pressoché impossibile: all’interno dell’edificio colpito dall’esplosione il processo di sviluppo della pellicola iniziava spontaneamente solo dopo pochi secondi, e dopo qualche minuto all’interno del Reattore 3. La stessa misurazione degli effetti delle esplosioni in questi spazi si dimostrò un processo difficoltoso, quando non letale. Le immagini sopravvissute all’esposizione mostrano minacciose infiorescenze rosse/rosa che attraversano il fotogramma, funesta riproduzione dello scatto amatoriale del weekend.

Le modifiche apportate dall’esplosione all’interno del Reattore 4 hanno trasformato un grande e calibrato congegno in un incubo speleologico. Con travi metalliche, grandi quanto un autobus, spezzate dalla forza dell’esplosione e saldate a informi conglomerati di schegge, è stato impossibile rilevare con precisione la possibilità di una continua reazione nucleare a catena all’interno della massa in fusione. Negli anni, col raffreddarsi dello schiumoso minestrone di polvere di cemento, propellente, metallo e altro materiale assortito, la colata che ricopriva il materiale radioattivo più pericoloso ha iniziato a presentare delle crepe. La penetrazione dell’acqua piovana ha contribuito ad allargare le fenditure, mettendo in luce la presenza di altro FCM, la cui composizione rimane ignota.

Sorvegliare questi cambiamenti si è rivelata così questione sempre più pressante. Per questo, insieme alla faglia di Sant’Andrea la centrale nucleare di Chernobyl è diventata uno dei luoghi più attentamente sorvegliati del pianeta. Tuttavia, uno dopo l’altro, tutti i sistemi di sorveglianza installati per monitorare la struttura hanno iniziato a deteriorarsi, fino a morire sotto l’invisibile aggressione combinata di alte temperature, raggi gamma e flusso di neutroni. La miscela radioattiva, a quanto pare, non gradisce essere osservata. Come un drago medievale, le stimate duecento tonnellate di uranio, la tonnellata di plutonio e l’ibrida mescolanza di combustibile e detriti si annidano dentro a una caverna, minacciosa, spaventevole, oscura: anche se non vi sono ruggiti, code striscianti, artigli serrati.

La prima mossa fu tentare d’ingabbiare il mostro. Grazie a maestranze dallo straordinario coraggio e abnegazione, negli anni successivi all’esplosione intorno alle rovine del Reattore 4 fu costruita una struttura d’emergenza: un’intera parete di rinforzo venne eretta sul fianco occidentale del reattore; visto di profilo un alto muro a cascata eretto sul lato nord somiglia alla sezione di una piramide a gradini. Questo metodo permise ai muratori di chiudere lentamente lo squarcio nel reattore, contenendo nel contempo l’esposizione alle intense radiazioni. Un nuovo tetto venne poi steso sulle rovine, e per descrivere il procedimento cominciò a essere usato il termine ‘sarcofago’, quasi a voler riconoscere la grande potenza racchiusa nella tomba e insieme lo sforzo faraonico necessario per rinchiuderla. Oggi, le autorità ucraine preferiscono definire la struttura un “oggetto-riparo”, una descrizione i cui toni deliberatamente smorzati non riescono a mascherarne il singolare carattere. Naturalmente, per quanto i reattori nucleari non vadano particolarmente famosi per la loro bellezza, l’‘oggetto’ in sé è brutto. Questo nonostante sia stato ingentilito con una mano di pallida vernice anticorrosione, che viene da sospettare rappresenti più un espediente estetico per le macchine fotografiche dei media che una reale misura cautelativa.

Ora, tuttavia, è in discussione un intervento su tutt’altra scala, e i progetti per un’enorme struttura isolante da costruirsi intorno all’intero reattore sono giunti ormai alla fase finale. Il complesso, che consiste in un’arcata a forma di hangar lunga 260 metri e alta 100, sarà anche il più grande edificio mobile del mondo. Dato che non sarà possibile erigere la struttura direttamente sopra il reattore, essa verrà costruita di lato e fatta poi scivolare sopra il reattore stesso, usando una combinazione di lastre d’acciaio lubrificate e sistemi idraulici. L’arco sarà quindi ricoperto con un sandwich di lastre metalliche – attualmente si propende per una lega d’alluminio – e pareti metalliche andranno a sigillare le due estremità. All’interno, nuovi sistemi di monitoraggio, gru robotizzate e, ove possibile, tecnici specializzati inizieranno la delicata opera di smantellamento dei resti del reattore. Le travi arrugginite dovranno essere tagliate, il materiale radioattivo rimosso e inviato a speciali depositi, mentre i vari FCM verranno raccolti in appositi contenitori. I lavori di consolidamento dell’esistente costruzione protettiva, che precedono la realizzazione dell’arcata gigante, termineranno entro i prossimi dodici mesi. L’intero progetto costituirà tanto lo smantellamento di un’identità – Chernobyl è sinonimo di disastro – quanto di un girone infernale radioattivo: il mondo ha bisogno di conferme che l’inferno può essere sconfitto.

Distruzione, costruzione d’emergenza e adesso un’altra costruzione allo scopo di distruggere: i ritmi di Chernobyl sono unici. Il processo di smantellamento può richiedere anni, forse anche cento: è questa la durata minima prevista per la nuova struttura protettiva, il cui completamento è atteso per il 2008. Il costo annunciato dell’operazione è attualmente stimato a 717 milioni di dollari, derivanti da sovvenzioni fornite da oltre venti paesi d’Europa e dagli Stati Uniti (il contributo dell’Italia, 16 milioni di dollari, è pari a quello della Gran Bretagna) e i fondi sono gestiti dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. I tecnici che guidano il team di progettisti (provenienti dal gigante americano delle costruzioni Bechtel International Systems Corporation e dalla francese Electricité de France, i principali partner) credono che la struttura possa durare trecento anni. Sia come sia, questa gigantesca tomba non durerà per sempre.

I faraoni d’Egitto credevano che i loro sepolcri sarebbero rimasti inviolati, ma le loro spoglie sono state sparse qua e là da generazioni di profanatori di tombe. Allo stesso modo, i resti di Chernobyl finiranno per essere riesumati: la struttura isolante è infatti temporanea, progettata per tener l’acqua all’esterno e le polveri all’interno, per tutto il tempo necessario al governo ucraino per approntare una struttura di stoccaggio permanente. Scienza e politica non hanno attualmente una risposta a questa pressante richiesta, a un problema che affligge numerosi paesi in tutto il mondo. È stata creata una forma d’energia invisibile con residui che non sappiamo dove mettere e che, quando si consideri la realistica possibilità di un errore umano, può ucciderci tutti. È significativo che l’unica soluzione all’esplosione di Chernobyl sia costruire e ancora costruire: l’architettura sembra riaffermare la nostra fiducia nelle risposte, anche quando esse si mostrano sempre più vacue.
La stazione atomica di Chernobyl oggi: è la vista più ravvicinata del vecchio reattore che il livello delle radiazioni e motivi di sicurezza consentono al visitatore. Il muro diroccato a sinistra e quello alto al centro, realizzati in seguito all’esplosione del 1986, sono costantemente monitorati per verificare cedimenti strutturali e infiltrazioni d’acqua. A destra, s’intravvede il piccolo centro per i visitatori
La stazione atomica di Chernobyl oggi: è la vista più ravvicinata del vecchio reattore che il livello delle radiazioni e motivi di sicurezza consentono al visitatore. Il muro diroccato a sinistra e quello alto al centro, realizzati in seguito all’esplosione del 1986, sono costantemente monitorati per verificare cedimenti strutturali e infiltrazioni d’acqua. A destra, s’intravvede il piccolo centro per i visitatori
I volumi massicci dei blocchi in cemento rinforzato, costruiti per contenere la fuoriuscita di materia 
degli altri tre reattori di Chernobyl (completamente dismessi solo negli ultimi due anni) dominano con forza faraonica il sabbioso paesaggio ucraino
I volumi massicci dei blocchi in cemento rinforzato, costruiti per contenere la fuoriuscita di materia degli altri tre reattori di Chernobyl (completamente dismessi solo negli ultimi due anni) dominano con forza faraonica il sabbioso paesaggio ucraino
Studi preliminari della nuova struttura che dovrebbe inglobare il reattore nucleare, presentati in esclusiva a Domus. Il gigantesco arco costruito a lato del complesso, in attesa di essere slittato su binari realizzati ad hoc
Studi preliminari della nuova struttura che dovrebbe inglobare il reattore nucleare, presentati in esclusiva a Domus. Il gigantesco arco costruito a lato del complesso, in attesa di essere slittato su binari realizzati ad hoc
L’arco, nella posizione finale, rivela la sua enorme luce
L’arco, nella posizione finale, rivela la sua enorme luce
La costruzione delle strutture di contenimento, situate a qualche chilometro di distanza dai reattori di Chernobyl, è quasi completata. A un’estremità del blocco è stato realizzato un centro per il trattamento e lo smantellamento dell’impianto. Mentre queste strutture di servizio dovrebbero garantire il temporaneo isolamento di materiale estremamente pericoloso, il loro destino a lungo termine rimane imprecisato
La costruzione delle strutture di contenimento, situate a qualche chilometro di distanza dai reattori di Chernobyl, è quasi completata. A un’estremità del blocco è stato realizzato un centro per il trattamento e lo smantellamento dell’impianto. Mentre queste strutture di servizio dovrebbero garantire il temporaneo isolamento di materiale estremamente pericoloso, il loro destino a lungo termine rimane imprecisato

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