Niemeyer rivisitato

La fantasia organica di Oscar Niemeyer si dispiega nel padiglione per esposizioni Oca a San Paolo del Brasile, costruito negli anni Cinquanta e riaperto ora con una grande mostra di opere dalla Tate Modern, vista da Stefano Casciani. Fotografia di Nelson Kon.
 
A chi si affaccia dall’altissima terrazza dell’edificio Italia (165 metri) São Paulo appare la megalopoli più importante del mondo, non solo per i suoi incalcolabili milioni di abitanti (18? 20? 23?) ma soprattutto per essere anche una specie di museo della storia dell’architettura del secolo passato: dalla downtown con reminiscenze di Manhattan – o meglio, della vecchia Bowery, piena di homeless, ubriachi e barboni – all‘ interminabile freeway, fiancheggiata quasi ininterrottamente da favelas, che dal lontanissimo aereoporto di Guarulhos mi conduce fin qui a bordo di uno dei taxi più scassati che abbia mai preso nella mia carriera di visitatore solitario di città.

Dal 47° piano anche i luoghi comuni sullo skyline di Manhattan impallidiscono di fronte all’estensione di questa sterminata conurbazione. C’è forse una fotografia di Sebastiano Salgado che può darne una vaga idea, ma insiste troppo sulla caligine dell’aria paulista: che tutto fonde in quell’identità urbana che Caetano Veloso nella sua canzone Sampa (acronimo di São Paulo) poeticamente definisce “il rovescio del rovescio/del rovescio del rovescio/del popolo oppresso nelle file delle favelas/del potere del denaro/ che crea e distrugge le cose belle/del fumo orrendo che sale e spegne le stelle”.

Per riprendere fiato e respirare aria più sana, anche in senso architettonico, meglio andare allora al Parque do Ibirapuera, grande giardino naturale e piccolo parco tematico sull’architettura moderna brasiliana. In questa sorta di piccolo E.U.R. democratico – com’era stato il Brasile negli anni ’50 , quindi celebrante la modernità vera – l‘invenzione tipologica più intelligente è sicuramente la gigantesca marquise: una pensilina, quasi una megastruttura per la sua estensione, sotto cui ripararsi dal troppo sole ma anche compiere evoluzioni in bici, skate board o semplicemente passeggiate con la fidanzata. La marquise collega idealmente i diversi punti focali di Ibirapuera, cioè le architetture ideate e realizzate tra il 1951 e il 1954 dal team progettuale composto da Oscar Niemeyer, Zenon Lotufo, Helio Uchôa e Eduardo Kneese de Mello, con gli associati Gauss Estelita e Carlos Lemos.

Sono il Palazzo delle Nazioni, dell’Industria, dell’Agricoltura e, più sorprendente di tutti, il Palazzo delle Arti. Quello che da poco più di un anno, restaurato e riaperto con il curioso nome di Oca (pronuncia Orca, con la r, nome dell’antica capanna indigena di questa parte del Brasile) è tornato ad essere un vero padiglione per esposizioni, dopo un periodo di incerta destinazione: compresa quella, un po’ misteriosa, di magazzino per l’aeronautica militare.

Visto alla luce del sole, il giorno prima dell’inaugurazione della mostra “Art Revolution: A Bigger Splash. Arte Britanica da Tate de 1964 a 2003” con cui in agosto è stato riaperto al pubblico, l’edificio somiglia più al classico Ufo dell’iconografia fantascientifica anni 50, che a un‘icona del paternalismo etcnico.

E così come la Torre Copan – che a pochi metri dall’Edificio Italia, con la sua pelle traslucida fatta di lame frangisole lascia intravedere la vita interna all‘ edificio – anche questa pare una sublime anticipazione di quella che è oggi la moda organica in architettura: le tante forme curve e curvoidi che hanno fatto coniare a Charles Jencks il termine di Blobmeister per certi architetti, non necessariamente giovani, che hanno rinnovato la loro immagine – e il loro portafoglio clienti – rifacendosi proprio all’architettura di questi anni eroici.

All’interno dell’Oca, la fantasia organica di Niemeyer è dispiegata in una passerella moebiusiana, che si avvolge sotto la cupola che copre il grande spazio vuoto, ovvero riempito dalle opere degli artisti inglesi entrati nel Gotha della collezione Tate Modern. Si va dal preraffaellita (a confronto delle carcasse di Damien Hirst, che qui però espone solo la serie graficofarmaceutica The Last Supper) David Hockney, che apre la mostra proprio con il suo A bigger Splash – icona della lunga serie di piscine ritratte a simbolo del vuoto esistenziale che sta dietro alla società Pop – all’inquietante Antony Gormley, capace di esprimere il senso di prigionia dell’individuo nei suoi corpi umani raggomitolati in materiali assurdi: fino al massimo spleen di Cornelia Parker, probabilmente una delle migliori artiste inglesi della sua generazione, pronta a far saltare in aria un giardinetto e poi a ricomporne i pezzi sospesi in aria appesi a non del tutto invisibili fili. E che qui nella mostra sospende invece in una sorta di nuvola stratiforme Thirty Pieces of Silver (il prezzo pattuito da Giuda per tradire suo fratello il Cristo), ovvero ciò che rimane di compositi servizi d’argenteria letteralmente spiaccicati sotto il rullo di una schiacciasassi.

All’inaugurazione – ma anche immagino adesso, che la mostra è ancora aperta – i visitatori sembravano divertirsi come bambini a salire e ridiscendere le passerelle, trovando sempre nuovi scorci per vedere le opere di questa disperata e molto profetica arte inglese contemporanea. Non fosse stato infatti per la risata soddisfatta di Niemeyer che pareva di sentire ogni tanto, contento di vedere come l’effetto del suo espediente scenografico è perfettamente riuscito, ci sarebbe stato da farsi prendere dalla saudade più profonda: o meglio, dalla coscienza che, per chi non coltiva almeno una vaga speranza d’utopia, i New Brit Artists hanno perfettamente ragione nel dipingere o scolpire lo spettacolo dell’Occidente in decomposizione, etica più che fisica.

Il giorno dopo riuscirò a parlare con Niemeyer, a Rio de Janeiro, nel suo studio di Copacabana nell’alto dei cieli, l’attico della curiosa palazzina deco Ypiranga sulla Avenida Atlântica. Sembra davvero d’incontrare un piccolo Santo dell’agiografia modernista, che scruta il visitatore con occhi stanchi ma intensi, ne chiede il nome per dedicargli uno dei suoi molti libri. In un’altra stanza, impilati non troppo in ordine, stanno un po‘ di copie del catalogo sul Padiglione per la Serpentine Gallery, che da poco Niemeyer ha potuto realizzare ad Hyde Park.

A 96 anni Niemeyer si scusa per il poco tempo a disposizione da dedicare al visitatore, ma “ho molte responsabilità e molte persone di cui preoccuparmi”. In effetti lo studio è popolato di diversi architetti, che discutono alcuni progetti in corso, altre icone geometriche da aggiungere al già ricco Parnaso dei suoi capolavori, che vanno dalla capitale Brasilia alla Mondadori di Segrate, fino al molto discusso piccolo meraviglioso museo di Niteroi: perfetto oggetto/scultura in bilico sulla scogliera, occhio di cemento e vetro che scruta la costa carioca.

Niemeyer parla in francese, ricordo dei suoi anni parigini di esilio dai generali, e le frasi scorrono come i ricordi: brevi schizzi di pensieri, solo a volte leggermente irritati, venati dell’impazienza di chi, a 96 anni, vorrebbe almeno finire quello che ha cominciato. “Quanti anni hai, tu? 48? Io a 48 anni starei in spiaggia, qua davanti: alla tua età ero sempre in spiaggia. In fondo, l’architettura non è così importante. È più importante la vita. Vedi? – e prende un cappellino rosso di una marcia dei contadini che ha sulla scrivania - sono andato alle marce per la terra. È più importante cambiare il mondo”.

“Tu scrivi? Sei un giornalista? Anch’io devo sempre spiegare i miei progetti prima con degli scritti. E quando non ho le idee abbastanza chiare per spiegarmi torno al tavolo da disegno… E poi ricomincio: ma uso il mezzo della scrittura, e poi molti modelli. Vuoi sapere perché? Perché nei libri preferisco mettere le foto dei modelli? Perché nessuno capisce l’architettura” “L’architecture c’est un m… Tu cosa fai quando devi fare un libro? Fai le tue ricerche, prendi appunti, poi ti metti lì e lo scrivi. Correggi le bozze, lo fai stampare, è finito. È lì, non c’è più niente da fare. L’architettura no. Non finisce mai… Accanto al padiglione Oca – no, non ho visto com’è venuto il restauro – è previsto un auditorium. L’abbiamo progettato nel 1954. Deve essere ancora costruito”.
In primo piano, la gigantesca marquise
In primo piano, la gigantesca marquise
L’Oca è uno dei punti focali del Parque do Ibirapuera
L’Oca è uno dei punti focali del Parque do Ibirapuera
<i>A Bigger Splash</i> di David Hockney (1967) apre e dà il titolo alla mostra
A Bigger Splash di David Hockney (1967) apre e dà il titolo alla mostra
La rampa a nastro che si snoda attraverso il Padiglione di Niemeyer permette la visione delle opere in mostra con continui cambi di prospettiva
La rampa a nastro che si snoda attraverso il Padiglione di Niemeyer permette la visione delle opere in mostra con continui cambi di prospettiva
A sinistra, si riconoscono Escaped Animals (2002) di Julian Opie e Monument (1980-81) di Susan Hiller
A sinistra, si riconoscono Escaped Animals (2002) di Julian Opie e Monument (1980-81) di Susan Hiller
In primo piano, una delle sculture <i>Three ways</i> (1981) di Antony Gormley
In primo piano, una delle sculture Three ways (1981) di Antony Gormley
Cornelia Parker (n. 1956) ha installato al primo piano del padiglione l’opera <i>Thirty Pieces of Silver</i> (1988-89), servizi da tavola e altri oggetti in argento schiacciati da un rullo compressore
Cornelia Parker (n. 1956) ha installato al primo piano del padiglione l’opera Thirty Pieces of Silver (1988-89), servizi da tavola e altri oggetti in argento schiacciati da un rullo compressore
La cupola dell’Oca vista dal secondo e ultimo piano
La cupola dell’Oca vista dal secondo e ultimo piano

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