Restauri filologici troppo rigorosi e riorganizzazioni secondo le normative di antichi istituti museali di sicuro appaiono a un architetto contemporaneo noiosamente restrittivi. La capacità del progettista di leggere in programmi di questo tipo una possibilità di manovra più libera e di condurre con sensibilità una prova di equilibrio tra le richieste della committenza e le proprie visioni è determinante per la riuscita del lavoro finale.
Ca’ Pesaro, sede della Galleria internazionale di Arte Moderna che necessitava di un rinnovamento, ha rappresentato nel 1991 per Boris Podrecca un classico caso di questo tipo: da un lato un brief molto vincolante, dall’altro la sua ipotesi di realizzare un intervento che avesse anche valenza urbana. L’idea, chiara sin dall’inizio all’architetto che vanta numerosi progetti di spazi pubblici, non è stata modificata nel corso degli anni né dalla difficile condizione del denso tessuto veneziano; tanto meno dalle pastoie burocratiche di una Soprintendenza particolarmente rigida nel tutelare una città monumentale già ipertutelata.
Il palazzo barocco (1659-1710), disegnato da Baldassarre Longhena e affacciato sul Canal Grande, è stato quindi rigenerato per gli aspetti artistici, impiantistici e funzionali, ma l’intero piano terra – spazi chiusi e aperti – è stato trattato come una prosecuzione della rete dei percorsi pubblici: una enclave che comprende un grande salone, la corte d’ingresso, un’ala trasversale e infine una piccola corte gotica, ed è ora accessibile a tutti, senza obbligo di visitare la Galleria al piano superiore. In tal modo Ca’ Pesaro è stata innestata nel grande sistema organico e vitale della città. Podrecca, insieme a Marco Zordan, è riuscito con appassionata testardaggine a operare una parziale demuseificazione di una delle più prestigiose istituzioni civiche, sovvertendo quello status quo delle icone espositive storiche che solo le varie Biennali con la loro vivace attualità riescono temporaneamente a scuotere.
Addirittura, il punto più riuscito nel programma di aprire alla città il parterre di Ca’ Pesaro è la minuscola e disordinata corte gotica, un tempo non annessa al palazzo e recuperata solo con il nuovo progetto: su di essa si affacciano volumi disomogenei, qualche reperto antico e tracce poco eroiche di comune vita quotidiana. In questo spazio interstiziale sono stati introdotti due elementi autonomi, per nulla imparentati tra di loro e neppure con lo stretto contesto: una voluminosa scala di sicurezza metallica, appoggiata esternamente al muro del museo e ben visibile come protesi scura da alcuni scorci delle calli circostanti, e un piccolo cubo nero, bagnato da un lieve getto d’acqua che scaturisce dal suo interno cavo: l’acqua scivola lungo il cemento e, con un suono leggero, si raccoglie a terra entro dei canaletti chiari disposti a girandola intorno al blocco scuro.
La sua staticità è così contrastata con l’impressione di un moto rotatorio. Dal raccoglimento di questa corte quasi profana, defilata rispetto all’ingresso principale, prende avvio una enfilade prospettica che finisce, all’estremo opposto, sul Canal Grande. La pavimentazione in mattoni e marmo stende una sorta di tappeto unificante rosso nella sequenza di spazi che va crescendo per dimensioni e decoro, resa fluida anche dalle grandi vetrate che introducono al salone d’ingresso senza interrompere la continuità visiva.
La trasparenza dell’accesso mantiene nel lungo atrio passante tutta la solennità di un antico palazzo veneziano, ma genera anche la familiarità di uno spazio pubblico da cui si accede tranquillamente alla caffetteria, al bookshop o a una saletta per esposizioni temporanee. Il soffitto a travoni in legno restaurato cela la macchina degli impianti e solo l’illuminazione artificiale – sia puntuale che diffusa – indica dei precisi ambiti spaziali, rivolta verso gli alti busti in successione regolare, o verso il basso a guidare un percorso.
Con la sua nota flessibilità stilistica (“Odio il razzismo stilistico e non penso che l’architettura si possa esprimere attraverso un solo linguaggio”), il poliglotta Podrecca attua piccole operazioni chirurgiche sul corpo dell’edificio, di volta in volta reagenti alle singole situazioni, senza preoccuparsi di omologazioni che leghino il vecchio al nuovo. Insiste anzi sulle differenze tra le densità dei materiali, tra i significati degli elementi compositivi, tra l’estetica del passato e quella moderna. Gli piace parlare di “organi trapiantati”, oggetti celibi che l’ossatura del museo metabolizza. Nella spina tra due muri in mattoni inserisce una sorprendente scala crociata in vetro, retta da una struttura metallica sottile ma solida, che sottopone la liquidità del vetro alle regole di un preciso disegno geometrico.
Al piano nobile, quello del museo vero e proprio, l’attenzione dei progettisti si concentra sul sistema espositivo, pensato come ulteriore metafora di un sistema di pensiero: la parete non è più semplice superficie su cui appoggiare delle opere d’arte, ma diventa una macchina ingegnosa, capace di adattarsi alle differenti esigenze museali. La nuova parete, sovrapposta ai muri preesistenti, è “involucro e nucleo allo stesso tempo”; in uno spessore di circa 10 centimetri racchiude canalizzazioni e meccanismi che ne rendono possibile uno slittamento verso l’alto, per far da supporto a lavori artistici di dimensioni particolarmente grandi.
Con questa strategia di aggressioni puntuali gli architetti sono riusciti a infiltrarsi nelle trame del restauro conservativo, ricavando dei momenti di azione di inaspettata efficacia. Peraltro, il programma complessivo di ristrutturazione di Ca’ Pesaro prevede altri episodi importanti di rinnovamento, come la destinazione del secondo piano (attualmente ancora occupato dal Museo d’arte orientale) a Kunsthalle, struttura per esposizioni transitorie non ancora esistente nell’ambito veneziano. L’ultimo piano sarebbe invece dedicato a camere scientifiche per gli studiosi dell’arte.
Ovviamente i lavori procedono per fasi, ma va comunque riconosciuto che Venezia avanza su vari fronti per configurarsi nei prossimi anni con una rinnovata qualità architettonica. Basti pensare ai cantieri già avviati per l’ampliamento del cimitero di San Michele, affidato a Chipperfield, per la nuova sede dell’Istituto universitario di architettura, di Miralles e Tagliabue, o per il Venice Gateway, il complesso di supporto aeroportuale di Frank Gehry.
