Affrontare Ground Zero

Deyan Sudjic analizza il dibattito sull’architettura scatenato sui media

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È stato l’interesse per l’architettura dimostrato dai newyorkesi, improvviso e del tutto inaspettato, a convincere l’estate scorsa le varie organizzazioni burocratiche in conflitto a fare qualcosa di serio per la ricostruzione del World Trade Center. Anche se sei mesi fa sembrava che l’esito più probabile dell’intervento su questi 65.000 metri quadrati di Lower Manhattan potesse essere la trasformazione del cuore di New York in una specie di sobborgo di Cleveland.

In seguito alle pressioni esercitate dalla Port Authority di New York e del New Jersey (proprietaria del terreno, che aveva affittato le torri gemelle al developer privato Larry Silverstein, appena prima dell’attacco dell’11 settembre) la Lower Manhattan Development Corporation (LMDC), ovvero l’ente istituito dallo Stato e dalla Città di New York per trattare i problemi della ricostruzione di quest’area, si era imbarcata in una strategia disastrosa. Aveva indetto un concorso per individuare un architetto cui affidare l’incarico, selezionando però i concorrenti non in base alle idee e alle proposte, ma a titoli e lavori precedenti.

Così fu scelto lo studio Beyer Blinder Belle, conosciuto soprattutto per il restauro della ottocentesca Grand Central Station di New York, ma senza una grande storia alle spalle di opere costruite ex novo. Lo studio ha ricevuto un onorario di ben 3 milioni di dollari per presentare, nell’arco di poche settimane, sei diverse soluzioni per Ground Zero. L’idea era di arrivare poi a tre e di incorporare infine in un unico piano generale le parti che fossero risultate meno impopolari: un modo di procedere che sembrava venire dritto dritto dal modus operandi dello staff della Casa Bianca, quando deve spiegare i piani per cambiare il regime di Baghdad a un presidente capace di poca concentrazione. Cioè chiedere alla CIA, al Pentagono e ai falchi di tutte le commissioni di esperti di presentare una serie di proposte, dall’assassinio all’invasione; far trapelare queste proposte alla stampa, infine mescolare il tutto e scegliere quelle che hanno sollevato meno proteste.

Un incarico del genere avrebbe annientato persino Le Corbusier, figuriamoci uno studio d’architettura di poco carisma e dall’impostazione piuttosto pratica. La Development Corporation si è difesa sostenendo che le proposte di Beyer Blinder Belle non erano da prendere alla lettera, come progetti architettonici veri e propri, ma come semplici schemi che dovevano servire a indicare dov’era il caso di costruire le nuove torri e quali aree fosse bene lasciare libere. Anche ammesso che questo sia il giusto modo di procedere (Billie Tsien, dello studio Williams Tsien and Associates, solo membro della Development Corporation che fosse architetto, certamente non lo pensava) la presentazione andò ovviamente malissimo.

I deprimenti disegni di Beyer Blinder Belle furono presi proprio alla lettera e universalmente giudicati non all’altezza della situazione. In un incontro pubblico organizzato allo Javits Convention Center, cinquemila persone giudicarono le proposte non abbastanza ambiziose e i disegni adatti a raffigurare una qualche città di provincia, non certo la metropoli più dinamica del mondo. Come viaggiatori di commercio dalla parlantina sciolta, Beyer Blinder Belle avevano presentato al pubblico il loro campionario di memorial per tutti i gusti. Una delle proposte conteneva una Memorial Plaza, un’altra una Memorial Square; poi naturalmente c’erano un Memorial Triangle, un Memorial Garden, un Memorial Park e una Memorial Promenade. Le proteste sollevate dai progetti costrinsero la Development Corporation ad ammettere la sconfitta e a ricominciare tutto da capo.

Poco tempo dopo avere presentato le sei idee di Beyer Blinder Belle e avere riconosciuto che nessuna di esse era buona, la LMDC indisse un concorso internazionale per trovare architetti che dimostrassero “entusiasmo, creatività ed energia”. Eppure questa seconda iniziativa ha rivelato certi difetti della prima, anche se ha almeno avuto il merito di richiamare architetti da ogni parte del mondo. Non si è trattato di un concorso in senso tradizionale, perché non c’è un vincitore, e non c’è un impegno a costruire qualcosa di preciso. Di fatto Alexander Garvin, capo della pianificazione della Development Corporation, si è riservato il diritto di mescolare elementi diversi.

Alcuni dei partecipanti hanno espresso critiche e riserve. Roger Duffy di SOM (Skidmore, Owings e Merrill) dichiara che “se la LMDC avesse veramente voluto un’architettura ardita e fantasiosa, avrebbe dovuto spendere più soldi e dare a noi progettisti sei mesi di tempo”. I sette gruppi che hanno partecipato al concorso hanno ricevuto 40.000 dollari ciascuno: per questo motivo Frank Gehry ha rifiutato di prendervi parte, sostenendo che un simile onorario era la dimostrazione che non si trattava di una cosa seria.

I gruppi scelti rappresentano un curioso miscuglio. Alcuni sono fatti di una sola persona: Norman Foster, Daniel Libeskind. Altri sono coalizioni piuttosto improbabili: SOM con Kazuyo Sejima. Poi c’è la bizzarra inclusione di Peterson Littenberg, con la sua proposta ‘leonkrieresca’, dissonante rispetto alle altre, partecipazione aggiunta all’ultimo momento, solo per le insistenze di Garvin.

I sette nuovi progetti costituiscono in ogni caso un importante passo avanti, anche se non è chiaro per ora se uno di essi sarà realmente costruito. Norman Foster ha presentato una virtuosistica riproposizione delle torri gemelle: non come ricostruzione letterale bensì, con la collaborazione dello scultore Anish Kapoor, come ‘landmark’ che darebbe certamente a Manhattan un profilo della stessa incisività di quello perduto. Pare che questa proposta abbia impressionato sia la LMDC che il developer Larry Silverstein, il quale è in attesa di riscuotere il denaro dell’assicurazione per la perdita delle torri gemelle.

All’altra estremità della scala generazionale c’è United Architects, un gruppo di cinque studi di giovani progettisti, fra i quali FOA (Foreign Office Architects) di Londra, Greg Lynn e Ben van Berkel: essi hanno tentato di reinventare l’idea stessa di grattacielo, raggruppando cinque torri che zigzagano e si toccano in alcuni punti, e creando in cielo, a 244 metri di altezza, un grande ‘viale’ a disposizione del pubblico.

Ora Foster e Libeskind sono in lizza per la torre più alta del mondo. Quella di Foster, immensa, è però forse più realistica, con i suoi 537,67 metri d’altezza (122 metri più delle torri gemelle originali). Comprende circa 557.000 metri quadrati di uffici e si eleva in un parco di 81.000 metri quadrati. Alla base c’è uno spazio pubblico, che si estende sopra la copertura di una nuova stazione della linea metropolitana di collegamento con l’aeroporto Kennedy.

Libeskind, forse più sensibile ai numeri ‘magici’, ha ideato un edificio ancora più alto di quello di Foster: la sua torre è alta 541,32 metri – 1776 piedi: un rimando all’anno dell’indipendenza americana – e ha gli ultimi venti piani fitti di alberi. Alla base della torre, la nuda roccia scoperta dalla distruzione delle torri gemelle è lasciata a vista, come un monumento alla memoria.

La proposta di Peter Eisenman, con Richard Meier, Steven Holl e Charles Gwathmey, è urbanisticamente molto più complessa. Benché battezzata Memorial Square, non è in realtà una piazza: a livello del suolo essa si estende e si riversa nella città. Se paragonate a quelle di Foster e di Libeskind, le torri previste da questo piano sono di altezza relativamente modesta: 338,63 metri – 1111 piedi, un altro numero magico per il sistema lineare americano.

Tutti i progetti lasciano sgombra l’area sulla quale si trovavano le Torri Gemelle e indicano dove e come situare i monumenti commemorativi. È evidente l’immenso sforzo progettuale che queste proposte hanno comportato – testimonianza, forse, del masochismo di una professione che non sa mai dire di no. Tutte insieme esse danno un’immagine convincente del punto in cui si trova l’architettura all’inizio del Ventunesimo secolo. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la percezione da parte del pubblico di che cosa l’architettura possa fare.

Il fatto che tutte le proposte precedenti siano state scartate perché giudicate inadeguate significa che a trovarsi sotto processo non era solo la Lower Manhattan Development Corporation, ma l’architettura in generale. Se non riesce nell’intento un gruppo che comprende i progettisti più famosi e di maggior talento, allora nessuno può riuscirci. Per gli architetti questa forse non è stata un’occasione per mostrare la loro sapienza, anche se all’inizio poteva sembrare così. Forse è stata soltanto un’occasione per i politici e i developer, che hanno trovato un capro espiatorio per l’insoddisfazione della gente.

Quando, lo scorso autunno, l’iniziativa si è messa nuovamente in moto, è sembrato che qualcosa stesse muovendosi nel clima culturale di New York. Una volta tanto non si trattava di developer e di burocrati che tentavano di soffocare la creatività degli autori, ma era l’élite della cultura che cominciava a interrogarsi e a ripensare a ciò che si stava avviando. Durante un dibattito particolarmente burrascoso sul futuro del World Trade Center, organizzato dalla Columbia University, Leon Wieseltier, direttore letterario di The New Republic, dichiarò che “c’è qualcosa di grottesco nel considerare Ground Zero un’occasione per l’arte.

Lower Manhattan non deve essere trasformata in un immenso mausoleo, ma neppure deve diventare un parco a tema per esperimenti architettonici”. Daniel Libeskind ha replicato con forza che questa posizione era frutto di una “mentalità molto ristretta”, e ha ricevuto un fragoroso applauso quando ha presentato la propria proposta, accompagnandola con un vigoroso discorso, che in qualsiasi altra circostanza sarebbe sembrato piuttosto banale: “Sono arrivato per nave a New York quando ero poco più di un bambino, come immigrato, e come milioni di altri che mi hanno preceduto la prima cosa che ho visto è stata la Statua della Libertà con il profilo sbalorditivo di Manhattan sullo sfondo. Non ho mai dimenticato quella visione e il suo significato. Di questo parla il mio progetto”.

Eppure quando, il mese scorso, la Development Corporation ha cercato di trarre qualche lume dalle reazioni del pubblico, la voglia di architettura dei newyorkesi è sembrata essersi in poco tempo assai ridotta, se non proprio dileguata: a sorpresa, al secondo incontro, dopo quello pieno di fermenti che aveva bocciato il progetto di Beyer Blinder Belle, si sono presentate soltanto seicento persone. L’apatia potrebbe rivelarsi il più grande nemico della ricostruzione di Ground Zero.
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