Architettura di marca

In Giappone, Louis Vuitton è una delle firme della moda più importanti e autorevoli. Il nuovo negozio realizzato da Jun Aoki a Tokio ne rispecchia fedelmente l’identità. Testo di Francesca Picchi. Photography by Nacása & Partners e Nakagawa

La speciale devozione che i giapponesi dimostrano verso il marchio Louis Vuitton si è palesata alla fine dell’estate quando, all’apertura del nuovo negozio di Tokio, l’evento è stato celebrato da una fila di 1400 persone in religiosa attesa di varcare la soglia del negozio Louis Vuitton più grande al mondo. Una simile devozione aiuta a comprendere com’è possibile che, in un Giappone provato dalla più lunga crisi economica del dopoguerra, in un anno fatale per l’economia mondiale, la casa francese abbia registrato un forte incremento nelle vendite (il 16%): un dato significativo giacché il Giappone è il paese che da solo produce un terzo dell’intero fatturato di Louis Vuitton.

Con questo edificio di cinque piani progettato da Jun Aoki, Louis Vuitton affaccia la sua presenza sulla strada di Tokio che intende raccogliere l’eredità di altri celebri distretti della moda: Bond Street a Londra, la rue François 1er a Parigi, o via Montenapoleone a Milano. Omotesando è una rarità nel paesaggio urbano di Tokio: costruita per inseguire la ‘grandeur’ degli Champs Elysées, è una delle poche strade alberate della città, in virtù del suo ruolo di accesso a Meiji Jingu (il tempio shinto più importante della città), e al suo bosco di centomila alberi. La via si trova oggi al centro di un significativo processo di trasformazione che nel giro di pochi anni ne cambierà il volto radicalizzando la vocazione commerciale del quartiere: oggi ancora ampiamente residenziale, si candida a diventare l’epicentro cittadino della moda.

Celebri case di moda si sono già affidate al potere illusionistico dell’architettura per affermare la propria presenza su Omotesando e dare forza alla propria immagine. Così, mentre Kengo Kuma, Kazuyo Sejima, Tadao Ando, Toyo Ito, Kisho Kurokawa sono impegnati a disegnare gli edifici che ospiteranno qui uffici e negozi di celebri griffe (come LVMH, Dior, Tod’s), paradossalmente saranno gli edifici della moda (un sistema notoriamente alla frenetica ricerca del cambiamento) ad offrirsi come punti fermi nella perenne metamorfosi del paesaggio urbano di Tokio. In un ambiente in continua evoluzione, dove gli edifici hanno vita brevissima, (dovuto anche alle alterne fortune e alle fluttuazioni dei valori immobiliari), Jun Aoki esprime molto bene il rapporto contraddittorio con un contesto su cui è difficile fare affidamento. Aoki concilia questa relazione con la necessità di costruire un’espressione indipendente per l’immagine Louis Vuitton.

Il suo edificio non ignora il contesto, mostra invece un alto grado di adattabilità ad esso, cercando relazioni con l’ambiente circostante. La doppia pelle della superficie, immaginata come un tessuto che avvolge la struttura dell’edificio e i suoi pannelli, a volte specchianti a volte traslucidi, ne confonde i confini rimandando indifferentemente i segni della vita che scorre al suo interno oppure i riflessi della strada e delle chiome degli alti alberi: immagini in perenne movimento, come percepite attraverso un velo di seta. La facciata trasparente e le texture di rete metallica leggera concepite come un rivestimento di tessuto confondono le divisioni tra interno ed esterno, tra negozio e strada.

L’edificio, nel rispetto delle norme edilizie (oltre i 31 metri di altezza, ad esempio, i pompieri non possono usare le scale anticendio) privilegia un rapporto di scala con gli edifici vicini. Aoki non evita di ignorare la presenza del quartiere di edilizia pubblica Dojunkai, costruito nel 1926 proprio di fronte al sito dove si trova il nuovo edificio Louis Vuitton, malgrado sia destinato ad essere demolito per far posto a un nuovo progetto, firmato da Tadao Ando. Al contrario, alla sua architettura Aoki dichiara di ispirarsi, riconoscendole il potere di aver influenzato il carattere dell’area e le sue modificazioni nel corso del tempo.

I quartieri Dojunkai, costruiti su modello occidentale all’interno del programma di ricostruzione dopo il disastroso terremoto del 1923, esprimono ancora l’immagine positiva della modernizzazione: bassi edifici in calcestruzzo conservano il potere della promessa di preservare i loro abitanti dai disastri, che invece non furono risparmiati dalle strutture di legno piegatesi sotto le scosse del terremoto. Abitato da artisti e sede di gallerie d’arte e piccoli laboratori, Dojunkai è forse il segno della continuità del quartiere nella sua vocazione alla residenza e al commercio, nella dimensione più colta. Impegnato a conciliare il bisogno di identità della moda con l’autonomia dell’architettura, Aoki ha individuato nella catasta di bauli da viaggio l’immagine per dare rappresentazione al marchio Louis Vuitton e trasferire alla scala dell’architettura l’esuberanza comunicativa della moda. Se l’architettura sotto certi aspetti, soprattutto quando lavora per la moda, può essere considerata una forma particolarmente sofisticata di packaging (un contenitore piuttosto elaborato), Aoki potrebbe aver pensato di esasperare questa metafora anche per conciliare l’esterno (architettura tutta protesa all’evanescenza e all’ambiguità della percezione) con l’interno.

Questo invece ha una connotazione molto classica (raffinate boiserie lungo le pareti alludono agli interni parigini della casa madre) e rispetta, pur aggiornandolo, il progetto d’interni elaborato negli anni Novanta da Peter Marino, per dare un’aria di famiglia ai negozi Louis Vuitton di tutto il globo (circa 300). In realtà la catasta di bauli è l’omaggio alle origini della griffe francese, fondata nell’epoca dei grandi viaggi e celebre per aver inventato bauli leggeri, in legno di pioppo, che resero immediatamente obsoleti bagagli ingombranti, non più adatti ai nuovi mezzi di trasporto: il transatlantico o l’Orient Express.

La catasta di volumi, ognuno diverso per proporzione e dimensioni, s’innalza per trenta metri da una pianta quadrata di 20 metri di lato, affacciandosi sul viale fiancheggiato da grandi alberi della famiglia degli Olmi. Quell’immagine, la composizione di singoli volumi in progressione verso l’alto, ha permesso ad Aoki di procedere con grande libertà nella definizione della circolazione interna, evitando un impianto schematico che procede per sovrapposizione di piani-tipo. Gli spazi (contenuti all’interno dei singoli volumi) fluiscono invece l’uno dentro l’altro dando l’impressione di camminare all’interno di scatole impreziosite dal rivestimento di legno o di trame decorate: luoghi ovattati dove si perdono le gerarchie tra pavimento, pareti e soffitto, come nella grande hall bianca che corona l’edificio, intessuta di un ricamo evanescente che sembra lavorato nel ghiaccio. Nella realtà dell’architettura, l’immagine dei bauli sfuma nell’allusione. Il sistema a doppia pelle delle pareti (all’esterno la trama metallica, all’interno le pareti specchianti o vetrate) sembra immergerli nella nebbia, dissolvendo la consistenza fisica dei muri: effetto reso ancora più teatrale dall’illuminazione collocata tra le due pelli.

La doppia pelle ha dunque una funzione: lascia il dubbio di una visione imprecisa che sconfina nel sogno o nel miraggio, ad essa s’intrecciano i riflessi dei pannelli specchianti virati nelle sfumature dell’oro e del rosa, per smaterializzare l’effetto metallico della trama d’acciaio. “Nostra intenzione era creare un nuovo materiale combinando due materiali diversi con spirito nuovo”, spiega Aoki. “Per far questo, abbiamo disegnato nel dettaglio quattro tipi di rete metallica, con trame diverse. Nella sovrapposizione si determina un effetto moiré ossia, in termini di percezione fisica, si produce un’interferenza. Quando due pattern si sovrappongono, infatti, tende ad emergerne un terzo: ma quest’ultimo non ha sostanza. Può essere visto ma non esiste nella realtà”. Le diverse trame del tessuto metallico combinato con i tre tipi di pannelli retrostanti (vetro, acciaio tirato a specchio, acciaio dorato) hanno permesso di adottare nove combinazioni diverse per modulare l’effetto visivo e controllare le diversità nella composizione. “La percezione cambia, a seconda del punto di vista da cui si osserva l’edificio: da sotto, con una visuale ‘schiacciata’ dal basso o dal lato opposto della strada”.
L’idea progettuale di Aoki si fonda sulla memoria delle origini di Vuitton, nata come azienda specializzata nella produzione di valigeria. L’edificio è costituito da un insieme di volumi distinti, che possono essere letti come stilizzazioni di valigie e bauli da viaggio, ciascuno con una sua propria immagine
L’idea progettuale di Aoki si fonda sulla memoria delle origini di Vuitton, nata come azienda specializzata nella produzione di valigeria. L’edificio è costituito da un insieme di volumi distinti, che possono essere letti come stilizzazioni di valigie e bauli da viaggio, ciascuno con una sua propria immagine
I volumi pieni di cui è fatto l’edificio sono inguainati in una pelle di rete metallica che vela l’intera struttura. Il gioco ambiguo fra solidità e trasparenza creato da questo velo è accentuato all’interno dal gioco di vetri trasparenti e di vetri a specchio
I volumi pieni di cui è fatto l’edificio sono inguainati in una pelle di rete metallica che vela l’intera struttura. Il gioco ambiguo fra solidità e trasparenza creato da questo velo è accentuato all’interno dal gioco di vetri trasparenti e di vetri a specchio
I piani destinati alla vendita sono attrezzati con un sistema di vetrine che è comune a tutti i negozi Vuitton, sulla falsariga di quello della casa madre di Parigi
Fotografia di Nakagawa
I piani destinati alla vendita sono attrezzati con un sistema di vetrine che è comune a tutti i negozi Vuitton, sulla falsariga di quello della casa madre di Parigi Fotografia di Nakagawa
I bauli e le valigie di Vuitton giocano sul logo dell’azienda – le iniziali LV – sia all’interno che all’esterno. Aoki usa questi elementi grafici nella sequenza di volumi- ‘valigia’ che costituiscono la struttura del negozio. A volte sembra di fare shopping all’interno di un baule da crociera
I bauli e le valigie di Vuitton giocano sul logo dell’azienda – le iniziali LV – sia all’interno che all’esterno. Aoki usa questi elementi grafici nella sequenza di volumi- ‘valigia’ che costituiscono la struttura del negozio. A volte sembra di fare shopping all’interno di un baule da crociera

Ultimi articoli di Architettura

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram