Fotografia di Red Saunders
Nelle desolate distese della steppa del Kazakistan, le immense orme lasciate dall’impero sovietico stanno rapidamente svanendo. Il processo di degrado si è accelerato lo scorso mese, quando il tetto dell’hangar principale del Cosmodromo di Baikonur, un tempo gioiello del programma spaziale sovietico, è crollato uccidendo almeno otto persone: testimonianza drammatica della decomposizione che sta distruggendo le vestigia ancora straordinarie di una superpotenza. Proprio due settimane prima – in occasione del lancio dell’ultimo razzo Soyuz a bordo del quale si trovavano il turista miliardario sudafricano Mark Shuttleworth, il pilota dell’aviazione militare italiana Roberto Vittori e il comandante russo Yuri Gidzenko – avevo visitato la grande struttura che si stagliava altissima contro il nudo cielo del Kazakistan, e avevo trovato un tesoro di cimeli spaziali.
Nella semioscurità la navicella Buran, elegante risposta dell’Unione Sovietica all’americano Shuttle, splendeva adagiata sui suoi razzi di propulsione, la superficie piastrellata liscia e non segnata dalle tante orbite spaziali accumulate alla fine degli anni Ottanta. Lì vicino, nuovi razzi Soyuz e Progress stavano chiusi in pudibonde gabbie, e il brusio discreto delle apparecchiature elettriche esprimeva calma ed efficienza. Su una parete, un gigantesco murale raffigurante il viso di Sergei Korolev, padre del programma spaziale sovietico, esprimeva l’orgoglio dei russi per le loro conquiste. Ancora mi domando se la guardia che mi accompagnava, una Venere grassoccia e un po’ rétro, fosse emersa da quelle rovine.
Anche dopo il crollo dell’hangar, le gigantesche incastellature del Cosmodromo di Baikonur si erigono in tutta la loro altezza, le silhouette rettilinee incise contro il vasto cielo come le pietre di una moderna Stonehenge. Da lontano sembrano grattacieli anoressici, una ‘intenzione’ di città che non si sia mai materializzata. Ai loro piedi si estende per chilometri e chilometri un piatto tappeto di terra che si piega all’orizzonte in una curva parabolica, mentre l’immenso e temibile cielo sovrasta tutto. Terra e cielo sono legati assieme dal segno verticale di questi arti metallici, i soli elementi che si contrappongano all’assoluta orizzontalità della scena. In questo luogo indefinito, senza ‘scala’, in cui le proporzioni misurabili secondo il criterio europeo non hanno senso, anche il tono epico viene ridotto al silenzio. Questa è l’Asia più anodina: né deserto, né montagna, né lago, né costa, questa parte del Kazakistan mostra una natura assolutamente “priva di idee”. Certo è un’ironia che proprio qui – latitudine 45,5 gradi nord, longitudine 63,4 est – il genere umano abbia compiuto per la prima volta uno dei suoi più grandi miracoli.
Tutto comincia con l’arrivo, nella fredda primavera del 1955, di tremila operai edili, trasportati fin qui in treno. Baikonur non esiste ancora: le sole voci umane sono quelle dei pastori e dei nomadi del vicino villaggio di Tyuratam. Ricevuto l’ordine di gettare le fondazioni di una rampa di lancio, e lavorando in condizioni di assoluta segretezza, gli operai scavano un canale verso il fiume Syr-Darja, dal quale trarranno sia l’acqua da bere sia quella necessaria a far funzionare le betoniere arrivate insieme a loro.
Nel giro di due anni i russi non solo dispongono di una stazione di lancio, ma hanno già sperimentato i primi missili balistici intercontinentali. Da questa terra desolata, da questa non-città, proviene la capacità di tramutare in deserti atomici le città del Nord-Europa: come se Baikonur – battezzata con il nome di una città che si trova in realtà a circa 400 chilometri di distanza, al fine di confondere i cartografi ostili – aspirasse, in un momento di gelosia totalitaria, a ridurre ogni altra cosa a un livello che essa potesse capire. Ma nessuna di queste gigantesche ‘lance’, caricate a plutonio, a uranio, o con qualche altro veleno estratto dal sottosuolo, verrà mai scagliata: Baikonur significa la possibilità di farlo, e questo basta.
Il genio che sta dietro lo sviluppo di Baikonur è Korolev, un uomo il cui nome non fu mai pronunciato in pubblico durante gli anni di Kruscev e di Breznev, quando era conosciuto semplicemente come il “Progettista Capo”. Tirato fuori da una miniera d’oro siberiana dove Stalin l’aveva confinato – essere il pupillo di un rivale era stato sufficiente a farlo esiliare – con l’incarico di progettare il Cosmodromo, Korolev si vede consegnare mezzi enormi e dare carta bianca, anche se il suo status di detenuto non viene revocato.
Ovviamente, il fallimento non è preso in considerazione neppure come remota ipotesi. Il cantiere è immenso e ben presto rivela le ambizioni di questo uomo straordinario che, come è detto nel piccolo museo locale a lui dedicato, per la grandezza delle sue realizzazioni dovrebbe stare a fianco di Galileo, di Archimede e di Newton. Come loro, è attirato dal fascino della forza di gravità e dei suoi effetti. Diversamente da loro, però, cerca di vincerla mandando l’uomo nello spazio. Non si può fare a meno di notare come dal museo sia assente ogni accenno alla vita personale di Korolev e alle sue tribolate vicende. Il piccolo e modesto edificio contiene invece un assortimento piuttosto convenzionale di ‘reliquie’. Fra le numerose bacheche piene di medaglie e cimeli, c’è una piccola capsula che racchiude i corpi imbalsamati del topo, del ratto e del coniglio lanciati insieme in orbita durante uno dei primi voli di prova nello spazio; c’è la tuta spaziale indossata da Laika, il primo cane mandato in orbita; c’è l’involucro della capsula che ospitava gli astronauti di un vecchio razzo Soyuz, più piccola di una Fiat Uno. All’uscita del museo, si vendono magliette con la scritta “Cosmodromo di Baikonur”, ma solo di misura XXL.
Il grande risultato iniziale ottenuto da Korolev fu il lancio dello Sputnik, il primo satellite artificiale della Terra, il 4 ottobre 1957. Poi, l’evento più importante, che traumatizzò gli americani: il lancio del Vostok, la prima astronave pilotata da un essere umano, il 12 aprile 1961, con Yuri Gagarin ai comandi. Lassù, lontano, dopo essere partito dalla torrida superficie della rampa di Baikonur, Gagarin fece il giro della Terra in meno di due ore, e diventò un eroe dell’Olimpo, un uomo il cui viso adornerà milioni di pareti e di album di scolari in tutta l’Unione Sovietica. Ben legato dalle cinture di sicurezza, Gagarin sedeva nella sua gabbia di alluminio, guardando il Cielo e la Terra scorrere silenziosamente davanti all’oblò; poteva vedere anche il Cosmodromo, con i suoi 85 chilometri di estensione da nord a sud e 125 da est a ovest, un territorio grande come la Moldavia. E forse avrà pensato anche alla piccola dacia dalle finestre colorate e dai mobili semplici e senza pretese, nella quale aveva passato la notte prima del lancio, alla portata del vigile sguardo di Korolev, che stava in una casetta a fianco. I due edifici sono rimasti esattamente dov’erano, e la loro fragile domesticità appare incongrua e fuori scala rispetto alla vastità di ciò che li circonda.
Baikonur può ancora vantare nove complessi di lancio, che comprendono quindici rampe per Proton, Soyuz, Molniya, Zenit, Rockot e altri veicoli spaziali, cinque centri di controllo, nove stazioni di puntamento, e dispone di un raggio d’azione di 1500 chilometri per le prove con i razzi. Ci sono anche undici strutture per l’assemblaggio dei razzi, tre stazioni di rifornimento di combustibile, un centro medico, due campi d’aviazione, un impianto per la produzione di ossigeno-azoto, una centrale elettrica e di riscaldamento, e un impianto di turbine a gas. Un caotico sistema di binari e di strade collega le varie parti del Cosmodromo, ben distanziate l’una dall’altra perché molte di esse – in particolare le cisterne di carburante e le rampe di lancio – esplodendo potrebbero provocare catastrofi. Il crollo dell’hangar principale ha tradotto in triste realtà questo terribile potenziale. Una rete di enormi tubi del carburante, simili a grassi serpenti, striscia sul terreno fra un nucleo e l’altro della base spaziale, così che dall’alto il sito assomiglia al sistema nervoso di un leviatano prostrato: ciò che il mostro ormai può fare è esalare l’ultimo respiro.
Negli anni Settanta, quando il programma spaziale russo era al culmine, qui lavoravano più di centoventimila persone: abbastanza da popolare una città di medie dimensioni, una città però priva delle strutture tipiche della vita urbana, negozi, scuole, ristoranti, teatri, cinema, biblioteche. E questo perché il Cosmodromo è una gigantesca fabbrica, un’immensa struttura produttiva costruita con l’unico compito di assicurare all’Unione Sovietica lo status di superpotenza mondiale. Ecco perché è difficile descrivere in termini strettamente architettonici gli enormi edifici sparsi sul sito.
È chiaro che essi non furono progettati pensando all’architettura, ma come immensi gusci di cemento a copertura di segrete imprese: l’unico indizio del loro legame con l’industria spaziale è la presenza di antenne paraboliche e di sistemi di puntamento. Tutti gli edifici sono improntati al prescritto anonimato. Per la maggior parte di essi il modello è il silos del grano o il magazzino: pareti scoscese sostenute da massicci contrafforti e brutalmente mozzate in cima a formare pure e semplici scatole. Porte metalliche di grandezza fuori del comune si aprono nei lunghi fianchi di questi edifici, dai quali i razzi, stretti nella morsa di ‘dita’ metalliche protettive, ogni tanto emergono per spostarsi con coreografica grazia lungo i binari e andare verso altri edifici: oppure, se è venuto il loro momento, avviarsi a una lontana rampa di lancio.
Da lontano sono edifici grandiosi, ma quando ci si avvicina risulta evidente la pessima qualità della costruzione: la finitura delle superfici e la cura dei dettagli sono state sacrificate alla necessità di costruire in tempi brevissimi e in condizioni atmosferiche inclementi, sotto il bruciante sole estivo o nel gelo delle notti d’inverno. Cercare di dare un’età a questi edifici è una scommessa. Molti sembrano datare dagli anni Cinquanta fino agli anni Settanta, ma la verità è che parecchie di queste strutture simili a tombe furono costruite negli anni Ottanta: testimonianza della ripetitività stilistica cara ai regimi totalitari.
Simili a tombe sono, e simili a tombe sono ormai realmente diventati. La vernice a poco a poco si scrosta per i venti taglientissimi che battono le steppe con inesausto zelo, la manutenzione è quasi inesistente da quando l’Unione Sovietica è crollata. Il futuro degli edifici che stanno attorno al guscio vuoto dell’hangar principale è già scritto: sono come una Persepoli che si muove lentamente, mentre i templi dedicati agli ideali dell’Olimpo cadono gemendo. Avete visto con i vostri occhi le vuote impalcature della rampa di lancio della Buran, parecchi chilometri più in là. Avete camminato attraverso una distesa di blocchi di cemento crollati fino a raggiungere le torri di lancio arrugginite, avete guardato giù nell’immensa buca antincendio, ora fradicia d’acqua, e avete visto la navetta spaziale russa giacere ormai defunta, come un giocattolo abbandonato da un bambino fra le sterpaglie del deserto. Per quanto impressionanti siano gli ziggurat dei depositi di carburante stagliati contro l’orizzonte, le tubature spezzate che corrono lungo i grandi capannoni di montaggio, riparazione e controllo raccontano una storia ben diversa, di irreversibile declino.
I paradossi sono evidenti: come fa a mandare uomini nello spazio un Paese che ha un’economia più debole di quella del Portogallo, la più povera dell’Unione Europea? Come mai, in mezzo ai relitti di veicoli spaziali e di scarti industriali che ricoprono disordinatamente ogni metro quadrato, si trovano ancora concentrazioni di alta tecnologia capaci di mandare nello spazio razzi sempre più agili ed efficienti? Più di quattrocento lanci sono stati effettuati dalla rampa numero uno, quella da cui Gagarin partì per avventurarsi nello spazio.
Oggi i razzi che partono da Baikonur testimoniano il coinvolgimento della Russia nel capitalismo e portano nello spazio satelliti commerciali, non bombe. Zeppi di complesse apparecchiature per la sorveglianza e le comunicazioni, finanziati da società occidentali, questi satelliti irrompono in orbita come semi sparati fuori da un gigantesco baccello.
Per tanti anni né vista né conosciuta, oggi la base di Baikonur mette nello spazio mille occhi elettronici e mille orecchie. L’atto finale della sua storia – forse un protrarsi del respiro del morente basilisco russo – si sta svolgendo ora. L’annuncio ufficiale, dato lo scorso febbraio, che i russi, per ragioni di sicurezza (il Kazakistan è troppo vicino alla cintura dei Paesi integralisti islamici) e di costi (al governo del Kazakistan viene pagato un affitto di 115 milioni di dollari l’anno), stanno pensando di portare il programma spaziale all’interno del proprio territorio, è stato appena smentito dal capo delle forze spaziali. “Resteremo a Baikonur altri quindici anni almeno”, ha dichiarato il generale Anatoli Perminov. Come suona precaria questa fiera affermazione di fronte alle nuvole di polvere di cemento che ancora avvolgono la titanica rovina dell’hangar principale! Quasi a esprimere l’incertezza che circonda il Cosmodromo o la rivolta contro l’innaturale successo che l’uomo ha conseguito sovvertendo le leggi della gravità, il suolo ha cominciato a muoversi e a deformarsi con nervoso anticipo, mettendo per traverso scale, facendo crollare camini, rovinando muri. Non lontano da qui, segni drammatici confermano le condizioni sempre più dure e inospitali della regione. Il drenaggio eccessivo e l’evaporazione hanno fatto sì che negli ultimi vent’anni il lago Aral, alimentato dal fiume Syr-Darja, si sia ridotto a un terzo della superficie che aveva all’inizio del Novecento. E le sue acque sono diventate pericolosamente tossiche a causa degli scarichi di sostanze chimiche, provenienti dai campi di cotone coltivati fino a poco tempo fa nelle distese del Kazakistan.
Delle centosettantotto specie di pesci che popolavano il lago, ne sopravvivono una trentina. Il ventilato progetto di far saltare i monti Mair e Tien Shan a est, per prendere l’acqua dei loro ghiacciai e convogliarla nella steppa del Kazakistan o nel lago Aral, usando a questo scopo le armi nucleari di Baikonur, è poco meno pazzo dell’idea (che pure viene avanzata) di scavare un canale attraverso l’Artico siberiano. Poiché l’impero russo si ritrae gradualmente verso nord, i discendenti di coloro che nella steppa del Kazakistan costruirono la porta verso le stelle sono ora obbligati a voltarsi indietro e a vedere questi sogni cosmici distrutti dalla vendicativa tempesta di sabbia che si addensa a sud-ovest.
