Perché il futuro sarà senza lavoro ma per niente brutto, breve e brutale

La pandemia ha scatenato un processo di revisione del nostro modo di lavorare come non accadeva dai tempi della rivoluzione industriale. Quali saranno i suoi effetti? 

Photo by Jordan Whitfield on Unsplash

Sebbene la vaccinazione anti Covid stia procedendo a ritmi impensabili sui media si parla sempre meno di “ritorno alla normalità”. Soprattutto per il lavoro e i luoghi del lavoro per due motivi legati al design: da un lato perché il lavoro flessibile imposto dalla pandemia ha dimostrato non solo che gli individui e le società si adattano più velocemente di quanto si pensava senza produrre le catastrofi che tutta una letteratura pronosticava. Dall’altro perché l’accelerazione digitale ha spinto temi che da tempo operavano nel profondo della nostra società globalizzata, come i limiti dell’iperspecializzazione, l’aumento della burocratizzazione e soprattutto le diseguaglianze sociali create dall’automazione. Fenomeni che tradirebbero la svolta più importante della storia del lavoro degli ultimi diecimila anni.

Secondo James Suzman, antropologo americano che ha appena pubblicato Work, a history how we spend our time, per capire come lavoreremo nel prossimo futuro occorre tornare a quello che è stato lo stile di vita dell’homo sapiens per il 95% della sua storia, vale a dire prima della scoperta dell’agricoltura avvenuta 12 mila anni fa. Una vita che non era affatto “brutta, brutale e breve”, anche perché gli uomini che vivevano cacciando e raccogliendo lavoravano raramente più di 15 ore alla settimana, avendo così tempo ed energie per quella che potrebbe essere chiamata cura di sé. Anziché vivere per lavorare, i raccoglitori-cacciatori lavoravano per vivere: un concetto che sarebbe stato ribaltato con i primi campi seminati che accelerarono l’invenzione delle tre principali istituzioni su cui si fonda ancora oggi la nostra vita economica: il denaro, i debiti e l’interesse.
Le civiltà agrarie iniziarono infatti a codificare un design of life rigidamente legato al calendario stagionale che stabiliva quando preparare il terreno, piantare, annaffiare, estirpare, potare, raccogliere, immagazzinare, scambiare, vendere, reinvestire. All’infinito. 

Foto Museums Victoria su Unsplash

Ovviamente, nel redesign del lavoro e quindi della vita imposto dalla scoperta dell’agricoltura e della sedentarietà c’erano anche numerosi vantaggi, ma fra questi non certo l’etica della felicità, che anzi da quel momento l’uomo legò direttamente al tempo e alla fatica dedicati al lavoro. Per Suzman questo stato di cose durò fino agli albori della rivoluzione industriale, quando si scoprì che motori meccanici alimentati da combustibili fossili potevano fare, rispetto ai deboli motori umani alimentati dal cibo, una quantità e spesso qualità di lavoro infinitamente maggiore. Fu allora che gli uomini immaginarono un futuro dove macchine intelligenti ci avrebbero liberato della necessità del duro lavoro e quindi dell’etica ad esso collegata. E avevano ragione perché se nell’antichità l’80 per cento della popolazione era impegnata a produrre cibo e generi di prima necessità, oggi solo il 5 per cento di europei lavora nell’agricoltura ma questo lavoro è talmente produttivo che ogni anno finisce nelle discariche una quantità di cibo pari a quello che viene consumato. Nella pandemia questo dato non è cambiato: in tutta l’america nei mesi di lockdown macchine intelligenti con pochissimi addetti hanno mantenuto intatta la produzione di cibo e di tutto quanto è servito alla popolazione. 

...è evidente che l’ondata di disoccupazione a lungo termine prodotta dal lockdown sarà superata solo da profondo, completo e radicale redesign dei valori e dei modelli di lavoro...

Davanti a tutto questo, anziché essere felici di lavorare di meno esplorando modi alternativi per organizzare la distribuzione della vita lavorativa e di una produttività mai così grande gli esseri umani continuano a ragionare su come non rimanere esclusi dal lavoro e condannare le generazioni dei propri figli a un’esistenza di riqualificazione continua destinata a perdere contro le tecnologie sostenute dall’intelligenza artificiale. A dimostrazione, per Suzman, che il fantasma della scarsità è ancora operante nel nostro inconscio individuale e sociale e il lavoro e le sue pratiche sono ancora al centro della nostra vita dove tutto è radicalmente mutato anche grazie a choc endogeni come la pandemia.

Per questo il design è ancora più cruciale oggi. Perché se le epoche di trasformazione sono sempre nate da una grande crisi – naturale o artificiale – che ha imposto nuovi paradigmi e nuovi valori è evidente che l’ondata di disoccupazione a lungo termine prodotta dal lockdown sarà superata solo da profondo, completo e radicale redesign dei valori e dei modelli di lavoro, di cui quello smart è solo una variante tanto quanto quello ibrido o quello della settimana di quattro giorni. Modelli che fino a pochi anni fa non venivano ritenuti degni di attenzione e che invece si scoprono adatti alla nuova normalità che non sta trasformando solo la modalità del lavoro ma anche dei luoghi di lavoro, su cui architetti e designer ma prima ancora aziende e operatori finanziari dovranno. 

Foto Heather Mount su Unsplash

Bisogna essere consapevoli. L’accelerazione digitale imposta dal remote working è solo un effetto di superficie. Nelle economie sempre più automatizzate – da alta intensità di capitale - il lavoro umano sarà sempre più marginale producendo come primo effetto l’amplificazione delle diseguaglianze fra ricchi e poveri. Dunque riducendo drasticamente le possibilità di realizzare le proprie aspirazioni solamente attraverso il lavoro, che per salvarci non dovrà essere legato alla necessità di produrre costantemente ma di sperimentare nuovi modi di vivere.

Immagine di apertura: foto Jordan Whitfield su Unsplash

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