Lombardia, “dove lo stabilimento è showroom e il retrobottega una vetrina”

Il viaggio dello storico britannico John Dickie nell’imprenditoria lombarda, alla scoperta di un territorio con “il culto del bello e del ben fatto”.

“Io sono stato scelto perché questa non è la mia realtà, per me è tutta una scoperta e questo mi permette di fare domande”, racconta John Dickie, protagonista di un lungo viaggio nell’imprenditoria lombarda – le provincie di Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia – nell’anno del Covid-19, raccontato in una miniserie di quattro episodi, Qui ogni impresa è possibile, ideata e realizzata da Assolombarda, online YouTube. 

“Il mio personaggio nel documentario, se possiamo così definirlo, non è quello del giornalista finanziario o economico, ma un punto di vista esterno”, racconta il professore inglese, specializzato in storia d’Italia, autore tra gli altri di un basilare libro sulla mafia, ma anche grande appassionato della cucina della penisola. All’inizio della nostra chiacchierata, il professor Dickie precisa che di questa area particolarissima per il suo tessuto socio-economico aveva conoscenze storiche e teoriche, ma non “sul campo”. E aggiunge che “per gli economisti è molto importante l’idea di un tessuto economico e queste provincie sono un esempio da manuale”.

Avete a girato a settembre. Rispetto alla pandemia, qual era lo stato di salute, anche mentale, delle aziende? 
Mio padre faceva il manager, gli imprenditori mi stanno simpatici, con la loro energia, la ricerca sempre del lato positivo. Con la pandemia, è facile lasciarsi prendere dal pessimismo. Noi abbiamo girato a settembre. Dal punto di vista della pandemia, erano tutti pronti, preparati e attrezzati negli stabilimenti. Aziende dove gran parte del personale lavorava da casa, quando possibile. 

Si guarda già oltre?
Le aziende hanno conosciuto momenti difficili ma vogliono raccontarsi, raccontare come il loro modello d’affari sia valido per il lungo termine, guardando oltre l’emergenza sanitaria.

C’è una cosa che l’ha colpita in particolare, durante questo suo tour? 
Sono rimasto molto sorpreso dalla varietà. Per chi viene da una realtà economica come quella londinese, come nel mio caso, totalmente imperniata sulla finanza e sui servizi e sul consumismo, rispetto alla realtà lombarda si ha l’impressione che sia una monocultura.

Spesso non se ne accorge neanche chi qui ci vive... 
C’è una varietà di capacità imprenditoriali, dal mondo degli eventi sempre più virtuali, alla chimica, alla tecnologia del vuoto – prendi Brisio Basi, azienda alle porte di Sesto San Giovanni – a startup incredibili nel settore delle scienze della vita. Uno non si rende conto dell’ecosistema, prima di visitare questi luoghi. C’è un campanilismo nel senso più positivo del termine, orgoglio per quello che il territorio ha da offrire.

Al loro interno, le province hanno una personalità estremamente definita, o la situazione è più eterogenea di quanto si potrebbe immaginare? 
C’è molta varietà anche all’interno delle singole province. La Brianza deve la sua vocazione aziendale agli artigiani che sono stati chiamati a costruire e mantenere la Reggia di Monza, alla fine del Settecento. È chiaro che già quello era un mondo molto diversificato, non c’era solo bisogno di mobili, ma anche di tecnici di tutti i tipi possibili.

Si associa subito la Brianza ai mobili…
Ma non c’è solo l’arredamento. C’è l’Aster che ha diverse specializzazioni nell’aeronautica, per esempio i radar nel mercato indiano. E poi OEB, fondata dal signor Brugola, che produce bulloneria. Magari molti non sanno che esiste un signor Brugola, come esiste un signor Biro! Oggi il presidente è Giodi Brugola, che abbiamo intervistato sul difficile passaggio generazionale, un altro problema che torna a galla ovunque, in questa realtà dove dominano le aziende familiari. Diverse strategie vengono messe in campo in questo senso. Per esempio, in Ferrari Formaggi sono state le figlie a prendere il timone dopo la morte di Giovanni Ferrari, è una azienda a trazione femminile. La ICR, sempre in provincia di Lodi, che fa cose straordinarie nel mondo della profumeria, è a sua volta gestite dalle figlie, Ambra e Giorgia. Questa è sicuramente una tendenza a lungo termine, che forse in passato non sarebbe stata così scontata.

La famiglia è centrale ancora oggi? Questo è molto italiano. 
L’azienda familiare è una realtà molto rappresentativa. È abbastanza commovente questa cosa che l’azienda non è “mia”, la si ha per un po’ di tempo e poi la si tramanda a chi viene dopo. È una forma mentis ammirevole nella sua capacità di pensare sul lungo termine. Non c’è questa mentalità di fare una azienda per poi venderla, fare soldi e... andare ai Caraibi!

Quindi in realtà in questo tessuto economico ci sono questi due diversi aspetti, uno di artigianato e uno imprenditoriale, che si tramandano di generazione in generazione. 
Sì, esattamente.

Una cosa di cui gli imprenditori si lamentano? 
Il costo del lavoro.

Gli italiani invece spesso si lamentano che l’Italia non sia più un paese innovativo. 
Non ho avuto questa sensazione. Certo, non è l’innovazione informatica della California. Ma in tantissimi micro-settori c’è innovazione, aziende che collaborano con le università, nel settore scientifico e in quello del design. L’innovazione non sono solo gli smartphone.

E il ruolo della tradizione, invece? 
Su questo posso fare l’esempio di Vigevano e delle scarpe. Una tradizione che si è dovuta reinventare perché oggi la scarpa da ginnastica ha conquistato tutto. Almini, per esempio, è una azienda che produceva scarpe di alta qualità per bambini, un mercato completamente distrutto dalle sneaker. Così hanno cercato altre nicchie, prima con le scarpe da golf. Anche quel mercato è stato distrutto e hanno girato il mondo in cerca di una nuova nicchia che hanno trovato nel mondo arabo, con i sandali di lusso. C’era una base di capacità artigianale altissima, bisognava avere l’agilità di trovare nuovi sbocchi.

A Vigevano ha visitato anche la Atom, che fa macchinari per il taglio di pelle e tessuti per scarpe 
In India dove si producono molte scarpe il macchinario per tagliare la pelle lo chiamano proprio “Atom”. Non puoi produrre delle macchine così, se non capisci intimamente come si fa una scarpa. Una tendenza che abbiamo visto è che lo stabilimento deve diventare showroom. Il cliente vuole vedere macchinari con un certo stile. La Ato produce questi macchinari che sono proprio belli, c’è da rimanere ipnotizzati guardandoli al lavoro.

Quanto è importante il bello? 
In Lombardia c’è il culto del bello e del ben fatto. In una impresa tutto è vetrina. Qualsiasi cosa tu stia facendo, una bici come la Passoni o una gigantesca autoclave come la Fedegari, il tuo cliente la vorrà venire a vedere, vorrà essere rassicurato in merito alla solidità della tua impresa. E quindi lo stabilimento è anche showroom, il retrobottega è anche vetrina. I clienti della Passoni, che produce bici anche da 30mila euro, vogliono vedere, e questo comincia nel momento in cui si sottopongono a una procedura di antropometria per capire quale sia il migliore telaio per loro. Rimangono incantati, non vogliono più andare via. C’è un vero e proprio culto per la saldatura Passoni e loro sono molto abituati a comunicare attraverso lo stabilimento.

Posso immaginare che questo fenomeno sia particolarmente marcato nell’arredamento. 
Sì, lo è. Per la Flexform per esempio la parola chiave è coerenza e un tavolino di trent’anni fa può essere accanto a un divano di ieri. Nello showroom c’è un linguaggio comune dei mobili. Non mi sorprende perché il design è soprattutto comunicazione, il discorso vale per Flexform come per Boffi. Sicuramente mi sorprende di più quando l’azienda in questione produce macchinari per il taglio della pelle o autoclavi. O una azienda come l’Erbolario.

Un’azienda nata come piccola erboristeria, poco più di quarant’anni fa a Lodi.
Anche lì vieni colpito dal discorso della coerenza, dello stabilimento che esprime valori: si sono fatti costruire un edificio a emissioni zero che sembra una casa colonica americana o inglese dell’Ottocento, con un immenso giardino e l’orto dove coltivano le erbe per i loro prodotti, e lì ogni aspetto è una espressione dei loro valori, quella che chiamano “una democratizzazione della bellezza naturale”, e pare che i fondatori, Franco Bergamaschi e Daniela Villa, reinvestano tutto quello che guadagnano. Una coerenza notevole.

A Lodi ha visitato anche la Zucchetti. 
Un segmento del tutto diverso, la programmazione del software, un’azienda che tra l’altro ha fatto tantissimo per il territorio durante l’emergenza sanitaria. Ci hanno tenuto tantissimo a farci vedere le opere d’arte e il loro quartier generale in centro a Lodi, un vecchio palazzo brutto che hanno riqualificato, facendone un edificio super ecologico e in qualche modo un simbolo per la città. Mi ha colpito fortemente che una azienda di software aziendale abbia come primo punto di riferimento la bellezza. Esprime tutto il mondo culturale di questa regione.

È la lezione dell’imprenditoria lombarda sull’importanza del comunicarsi con l’architettura? 
L’architettura è soltanto uno dei possibili canali di comunicazione. A comunicare il valore e la coerenza deve essere un progetto a 360 gradi. Mi è rimasta una curiosità, ovvero se esistano in Lombardia delle agenzie che rendono il tuo luogo di lavoro migliore e più comunicativo. Forse ci sono aziende di vari settori che ancora non si rendono conto di quanto potrebbero comunicare con questa attenzione per l’architettura, il design, la definizione degli spazi.

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