Il design oggi? “Deve arrivare primo”

Dal ruolo della progettazione nell’emergenza alla pandemia come detonatore di una crisi che c’era già da tempo: il presidente dell’ADI Luciano Galimberti intervistato da Walter Mariotti. 

“La vostra mi pare un’iniziativa meritoria. Di certo è originale, perché non se ne può più di parlare di Covid-19 riflettendo su cosa sia una mascherina di design…”. Non si capisce se scherza o se parla sul serio Luciano Galimberti, milanese, classe 1958, presidente dell’ADI ma soprattutto fondatore – con Rolando Borsato – dello studio bgpiù. Un atelier di processo costruito con l’idea di superare il tradizionale ruolo artigiano dell’architetto con il design thinking. Un’idea che oggi va molto di moda, molto meno nel 1985 quando la mise alla base del suo percorso.

Al di là dei ruoli istituzionali, lei è uno specialista del mix di approccio scientifico e umanistico nei diversi ambiti dell’abitare e del lavorare.
Mi riconosco, grazie.  Aspetti a ringraziare. Prima spieghi che vuol dire in concreto.
Vuol dire che se il design si limita ad arrivare ultimo, come nelle mascherine, non ha una vera possibilità di essere significativo.  E che cosa dovrebbe fare il design oggi?
Arrivare primo. Partendo dal thinking, ovvero dalle forme concettuali.  Anche per la pandemia?
Soprattutto per la pandemia. Davanti al Covid-19 il design si deve interrogare su cosa è cambiato nella società e come deve cambiare la società per il futuro. Altro che mascherine. Che cosa è cambiato, Presidente?
Per me niente. Niente?
Ricorda l’uccisione del Granduca Francesco Ferdinando d’Austria?

Bene, anche se non c’ero. Era il 28 giugno 1914.  Il Granduca era l’erede al trono d’Austria. Lo uccise, assieme alla moglie Sofia, un ragazzino serbo bosniaco, Gavrilo Princip. Fu l’inizio della Prima guerra mondiale.
Non fu l’inizio ma il detonatore. La guerra era iniziata da molto tempo, anche se non era ancora scoppiata. Ecco, la pandemia ha fatto da detonatore di una crisi che c’era da tempo, molto tempo.  Dove era questa crisi?
Ovunque. Pensi solo alla riflessione delle sedi di lavoro rispetto al remote-working, Anni di parole, teorie, ipotesi. Ma cosa è stato fatto concretamente in maniera industriale? In effetti lo spazio di lavoro non era stato abolito, mentre adesso sì.
Quella è una derivata. Il lockdown ha imposto un redesign dei rapporti prima ancora che degli ambienti. Una nuova fiducia tra dipendenti e datori di lavoro. Un nuovo patto. E’ questo il punto centrale dal quale deve partire il design. Invece riflette sull’emergenza.
Appunto. Ma se le emergenze diventano emergenza è la fine. Anche perché non dimentichiamo che in Europa si è convissuto per secoli con pesti di ogni tipo, eppure.

Eppure.
Eppure si continuava a produrre, coltivare, vivere, scambiandosi merci e saperi.  Tutto senza Internet.
Esatto, adesso abbiamo anche la tecnologia digitale. Io per esempio fino a ieri passavo un mese all’anno in Cina, per fare cose che adesso faccio via Skype. Le pare poco? No ma a emergenza finita dovrà tornarci, perché non credo che i cinesi vogliano rinunciare ad avere a cena il presidente dell’ADI.
E chi può dirlo? Io so solo che nella storia non si torna mai indietro, almeno in termini economici. Soprattutto in Cina, dove c’è un miliardo di persone. Ripeto, quello che cambia è la relazione. Dopo il Covid siamo disposti a comprare on line anche oggetti che prima non avremmo mai comprato senza toccarli. E a fare on line trattative e incontri che prima erano impensabili. Questi sono fatti, non interpretazioni.

Vuole dire che si sono davvero scardinati i perimetri degli schemi esperienziali?
Quando a Oxford, Cambridge e Harvard non si progettano più corsi in classe secondo lei che succede? Fino a ieri era una cosa inaudita. Oggi non è necessario, è normale. A dimostrazione dello scenario di relazione che è cambiato. Non so se per sempre, ma di certo è cambiato. Dell’Europa che pensa?
Penso che sia in crisi ma non per il lockdown, ma perché era già in profonda crisi.  Perché?
Perché l’Europa o è comune e tutta o non è. Comune e tutta significa non solo moneta comune ma anche governo, esercito, sistema sanitario comune. Altrimenti non c’è.  E il Made in Italy?
Quello c’è. E’ un brand sempre forte. Però va continuamente valorizzato. E invece questo noi lo dimentichiamo. Continuiamo ad accapigliarci sul piedino del divano o della sedia, se deve essere rotondo o quadrato, alto o basso. Quando noi abbiamo inventato la seduta… 

Abbiamo un tema d’identità.
Grande come una casa, ma solo perché sbagliamo la partenza. Il nostro design non ha una forte identità, come quello finlandese o tedesco, è un dato di fatto. Però è il nostro design ad aver inventato il modo di stare, di abitare, di vivere. Questo è il punto. Un punto dimenticato per primi da noi. Come uscirne?
Come l’Inghilterra. Vuole l’Italexit?
Ma no, al contrario. Voglio dire che quando Norman Foster va in Oriente a inaugurare il suo aeroporto ci va con il Primo ministro o con il ministro della cultura inglese, non con quello del paese dove l’ha costruito. Mi sembra chiaro no? Fin troppo. Concludiamo con un suggerimento operativo.
Agli Istituti di cultura italiana nel mondo. Smettere di fare mostre generaliste in giro per il mondo e fare invece mostre sui mercati specifici e la produzione. Promuovere il sistema di valori che sta dietro il nostro modo di fare design, scardinando la competizione su forme e prezzi. Sarebbe una rivoluzione.