Ich liebe die japanische Kultur. Kleine Schriften über Japan, Bruno Taut , A cura di Manfred Speidel, Gebr. Mann Verlag, Berlin 2005 (pp. 240, s.i.p.)
Bruno Taut è una scoperta infinita. Notissimo è il suo viaggio in Giappone, già da lui descritto in tre libri, numerose sono le pubblicazioni degli ultimi anni – saggi, edizioni critiche, ristampe – che cercano di riportare in Germania l’eredità dell’architetto e urbanista perseguitato in patria, eppure c’è ancora molto da fare, visto il ragguardevole volume di materiale ancora inedito. Ce lo ricorda questa raccolta di scritti a cura di Manfred Speidel, figura di studioso indissolubile dal binomio Taut-Giappone.
Incorniciati dal primo e dall’ultimo saggio che delineano l’arco cronologico in cui Taut visse il suo esilio nipponico (marzo 1933-ottobre 1938) si snodano venti scritti – otto dei quali appaiono per la prima volta – di diversa natura: articoli, lettere, progetti, pagina di diario formano un’antologia dal sapiente equilibrio suddivisa, quasi a tradire un intento didattico, in nove sezioni tematiche. Proviamo a leggere invece il libro tutto d’un fiato e immaginiamo che sia Taut stesso, contemporaneo mediatore culturale, a condurci attraverso il ‘suo’ Giappone.
Dopo i primi scritti in cui il suo sguardo europeo e modernista va avvicinandosi alla cultura giapponese esuberando di vivida passione a ogni pagina, vediamo avvicendarsi case, tradizioni, concetti (‘Nihon’, ‘Shinto’) come fossero impressioni colte in un volo attraverso città e paesi, raccontati da un occhio attento e da una scrittura sempre lucida e penetrante. Dinnanzi alle “meraviglie universali” di Nara, di Ise e soprattutto della villa imperiale di Katsura (su questo tema v. anche la recensione “La princesse est modeste”, Domus 886), sconosciute allora in Europa, l’occhio attento si placa e contempla.
Poche pagine più avanti, però, il volo si interrompe bruscamente, lo stato d’animo di Taut è mutato. Ecco che il titolo del libro, che cita uno slancio emotivo immortalato sul libro del Tempio di Shorinzan, non è una dichiarazione d’amore incondizionato al paese ospitante. La disillusione subentra a uno sguardo più approfondito e critico sugli aspetti della vita quotidiana e, in particolare, sull’architettura di uso abitativo: la casa tradizionale, inizialmente presentata come la conseguenza più logica dello stile di vita giapponese, è a ben vedere tutt’altro che ideale e atta a sopportarne il clima, vera piaga del paese. L’architettura ‘nuova’ che Taut vede intorno a sé non è che un pastiche d’importazione, imitatrice com’è di modelli occidentali, e perciò altrettanto inadeguata allo scopo. Alla nascita di una nuova architettura giapponese, che si sviluppi in sintonia con l’ambiente circostante senza snaturarsi e snaturarlo, manca soprattutto il fondamento; la figura dell’architetto contemporaneo non è riconosciuta come dovrebbe: al principe Kobori Enshu, leggendario architetto di Katsura, non viene riconosciuta una simbolica discendenza, agli occhi dei contemporanei questi è distante come il Tenno dai sudditi. E invece è proprio dalla tradizione, da Katsura, che può scaturire l’unica fonte di rinnovamento per l’architettura giapponese. Qui l’architettura è valida (‘gut’) perché legata al carattere nazionale, può assurgere a un livello qualitativo universale divenendo ‘Weltarchitektur’.
Solo in apparenza ci troviamo quindi agli antipodi di quell’International Style scritto dal 1932 a grandi lettere dall’altra parte dell’Oceano Pacifico. In realtà il pensiero di Taut è il corollario dell’idea di uno stile ‘internazionale’, l’annullamento della dialettica tra internazionalità e nazione (nota: qui Taut volutamente ignora l’esaltazione deviata della nazione giapponese sfociata proprio nel 1933 nell’invasione della Manciuria), essendo la prima l’origine della seconda. Tanto chiara e positiva risuona questa tesi nell’introduzione del volume, tanto è tortuosa la strada che Taut ci prepara per coglierla nelle sue parole. La sua Weltanschauung non è conciliante. Il suo punto di vista, l’architettura valida in quanto rispondente alla necessità del luogo in cui nasce e a cui è destinata, lascia intendere una necessità di fondo scritta con la N maiuscola, quasi fosse la forza ineluttabile e ancestrale conosciuta dagli antichi greci: non si può dire che la scoperta del carattere nazionale sia un’illuminante e catartica soluzione. Rappresenta invece una nuova utopia, un’assenza di luogo in senso letterale: Taut, architetto stimato in Giappone, riconosce la soluzione al problema, ma non può realizzare quasi nulla dei quattordici progetti che ha nel cassetto.
La scrittura rimane lucida e consapevole, ma, man mano che la lettura procede, si fa rassegnata anch’essa a qualcosa di ineluttabile. La sua ‘Kulturkritik’, rappresentata qui esemplarmente nelle ultime sezioni del libro, prende seccamente le distanze da tipici usi e costumi quali il kimono e la sua funzione sociale; più autonomia culturale è riconosciuta all’artigianato, invece, cui Taut tanto si era dedicato in quei tre anni. Sembra che l’architetto e urbanista, prigioniero di una fama accresciuta in Giappone e all’estero ‘solo’ in virtù di cronista di un nuovo mondo, vi sia rimasto intrappolato rimanendone allo stesso tempo escluso. Lo sguardo ora disilluso dell’osservatore sembra scandagliare l’ossessione dell’architetto vittima del suo stesso pragmatismo. Questa l’idea di fondo leggibile tra le righe del libro, già sintetizzata dall’osservazione di Speidel nella monografia del 2001 (Electa, Milano) secondo la quale “un architetto non può sentirsi a casa dove non costruisce”. Com’è lontano il Taut ‘visionario’ di Iain Boyd White!
Detto questo e preso atto del fatto che i testi qui riportati non sono esaustivi di quell’universo di riflessioni che è il Giappone di Taut, l’antologia dalla preziosa e sobria veste grafica, arricchita di un’eloquente introduzione del curatore (rielaborazione di un saggio pure presente nella monografia del 2001), un apparato di note essenziali e una misurata quantità di illustrazioni – foto e disegni, immagini di repertorio di Taut, Speidel e di altra provenienza uniformati in un tranquillizzante bianco e nero – è un felice accordo tra compendio per gli studiosi e appetizer per un pubblico più vasto. Non si spiegherebbe altrimenti la raison d’être di questa ricetta infallibile, frutto di ingredienti collaudati e speziata di novità. Il maestro prussiano ci insegna, “Hohe Qualität gehört der ganzen Welt” – “la qualità superiore appartiene al mondo intero”, questo libro ce lo dimostra.
Donatella Cacciola. Storica dell’arte