Alberto Sinigaglia: In che cosa consiste di preciso il tuo progetto sugli utenti del carpooling?
Alejandro Cartagena: Sono foto di persone che viaggiano nel cassone dei camion per recarsi nei cantieri e nelle case a sud di Monterrey. Per me sono anche la rappresentazione visiva del loro rapporto con il problema dei trasporti in una città ipercostruita. Tutte le foto sono state scattate su una delle più affollate autostrade di Monterrey, che porta a sud, verso la città di San Pedro. Ho scelto di lavorare dai cavalcavia e da una distanza di 10-15 metri per poter individuare i muratori da lontano.

Ho usato una macchina fotografica digitale, soprattutto per essere sicuro che la velocità di scatto fosse adeguata alla velocitò dei camion. Di solito lavoro con una cinepresa e quindi mi sono costretto a scattare solo una o due inquadrature per soggetto. Ciò rende la cosa più interessante e mi impedisce di esagerare con gli scatti.
Da quel che ho visto i tuoi lavori riguardano prevalentemente il Messico, il tuo paese, una terra che conosci molto bene. Oggi molti fotografi stanno sempre più spesso riscoprendo il loro territorio, i loro spazi e in certo qual modo se stessi.
Credo che lavorare nel mio paese mi metta più a mio agio, perché lo conosco bene. E comunque è vero, su un piano molto personale, vuol dire certamente riscoprire me stesso e conoscere la mia cultura e la mia identità. Per me è un grande arricchimento esplorare un luogo in più modi differenti. Nel mio libro Suburbia Mexicana ci sono cinque diverse prospettive dell'area metropolitana di Monterrey. Car Poolers è un altro punto di vista ancora, e mi interessano molto i numerosi altri che verranno.
Di solito ti attieni a un metodo o a delle regole quando cerchi dei soggetti?
Non proprio, ma preferisco i soggetti con più significati stratificati. Cerco sempre cose che siano in rapporto con i miei progetti precedenti ma qualche volta le cose saltano fuori dal nulla. Credo di essere stato fortemente influenzato dai testi di sociologia urbana, da David Harvey a Mike Davis. E sto ancora lavorando sulle cose che questi libri mi hanno fatto vedere e capire.

La si può chiamare "documentaria", ma se ciò di cui si va in cerca fossero solo le verità di fatto sarebbe deludente. Quello che mi interessa di più è ciò che io penso dei soggetti, e non la ricerca di una particolare verità in senso letterale. "Documentario" significa secondo me riferirsi a cose con cui tutti siamo in rapporto. Qualcosa di tangibile per gli altri oltre che per noi stessi. Mi piacciono i lavori che giocano tra verità e finzione. Quando non si guarda alle cose in senso tanto letterale si aprono molte prospettive.

È la fonte visiva di tutte le straordinarie immagini e di tutte le straordinarie narrazioni esistenti. Ed è anche il modo più rapido e più facile di presentare le proprie idee. Non me ne stanco mai.
Puoi suggerirci un libro messicano o sudamericano sulla fotografia?
La última ciudad di Pablo Ortiz Monasterio e Ricas y Famosas di Daniela Rossell.
E ora che farai?
Alla fine dell'anno mi nascerà un figlio, e completerò il progetto Car Poolers e un altro progetto cui sto lavorando a Guadalajara, in Messico.