Nicola Moscheni

Quanto sappiamo, realmente, della plastica negli oceani?

Uno dei trend sociali più in vista, del panorama ambientalista e non, è sicuramente quello che viene espresso attraverso l’hashtag #plasticfree. Avviamo con questo articolo una serie di riflessioni per inquadrare meglio l’emergenza della plastica e capire come affrontarla.

Una situazione, quella della plastica in mare, a dir poco catastrofica visto che è come se, ogni minuto, un camion pieno di rifiuti riversasse in acqua il suo contenuto (dati Ocean Conservancy). Un problema al quale non è facile trovare una soluzione. Basti pensare a quanto la plastica pervada la nostra quotidianità, essendo presente nella maggior parte di ciò che usiamo e vestiamo.

Fin dalla sua invenzione nella seconda metà del secolo scorso – grazie agli studi dell’italiano Alessandro Natta e del tedesco Karl Ziegler – le tecnologie si sono decisamente evolute, facendo maturare il mercato di questo derivato del petrolio fino agli apici di oggi. Lo confermano i dati di uno studio di Sciences Advances del 2017 che stimano che la produzione mondiale di plastica (e dei suoi derivati) sia passata dai 2 milioni di tonnellate del 1950 ai 380 del 2015, per un totale di 9 miliardi di tonnellate in soli 65 anni. Ma il dato più allarmante è che di questa enorme quantità di materiali solo il 15% viene riciclato, il 20% incenerito e il restante 65% finisce disperso nell’ambiente (dati OCSE).

Le isole di plastica non galleggiano

Quello che viene disperso viene intercettato in gran parte dal mare, sono infatti in media 8 milioni le tonnellate di plastica che ogni anno finiscono negli oceani, pari al 3% del totale di rifiuti prodotti a livello mondiale e l’80% di quelli marini. Un problema che è apparso chiaro agli occhi di tutti negli ultimi anni grazie agli allarmi lanciati dagli studiosi sul fenomeno delle cosiddette isole di plastica. Benché questo fosse un evento identificato fin dagli anni ’80, solo nel 2014 fu fornita la prima vera mappatura delle isole di plastica grazie ad uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences negli Stati Uniti.

Ad oggi sono distribuite in tutti i bacini marini principali come l’Oceano Atlantico, quello Pacifico e quello Indiano – e da studi recenti sembra siano presenti anche nel Mar Mediterraneo – e si tratta di ammassi di spazzatura formati al 99% da detriti di plastica che, trasportati da venti e correnti, si concentrano fino a formare quelle che metaforicamente si riconducono all’idea di un’isola galleggiante di rifiuti. Però nella realtà non è propriamente così. Non si devono infatti immaginare solo come distese di plastica che affiorano in superficie, ma bensì come cumuli di detriti plastici di varia dimensione sospese a mezz’acqua.

Si determina quindi la composizione di queste isole secondo due classificazioni: la prima, quelle delle macro-plastiche, di dimensioni variabili e visibili ad occhio nudo (per lo più sacchetti, materiale da pesca, bottiglie e flaconi); la seconda invece è quella delle microplastiche, di dimensioni millimetriche, quasi invisibili, che derivano in parte dai prodotti cosmetici e sanitari e in parte sono frutto della degradazione per effetto dell’acqua e del sole. Insieme, queste due componenti, creano una sorta di melma plastica che, insieme ai materiali più visibili, invadono aree che si estendono dai 700 mila ai 10 milioni di kmq.

La difficoltà nell’individuazione di questi accumuli di rifiuti dipende principalmente dal fatto che non sono completamente isole emerse. D’altro canto, però, sussiste anche il fatto che, esattamente come le correnti hanno radunato questi rifiuti, tempeste e maltempo disperdono nuovamente gli ammassi rendendoli così più diradati nell’oceano e rendendone complicata l’intercettazione per il recupero. Quello che sta tentando di fare, per esempio, Ocean Cleanup, un’organizzazione statunitense che ha nel mirino il Great Pacific Garbage Patch, la più grande chiazza di rifiuti al mondo, che si estende tra California e Arcipelago Hawaiano, creatasi per l’azione del Vortice Subtropicale del Pacifico, il quale mantiene insieme i rifiuti in un’area di circa 8 milioni di kmq di estensione, grande quasi quanto gli Stati Uniti stessi (dati Nature).

Il danno agli oceani e alle specie acquatiche

La plastica è diventata quindi un mostro acquatico che rischia di compromettere l’ecosistema degli oceani. Secondo uno studio dell’istituto francese di ricerca ogni anno muoiono a causa dell’inquinamento da plastica 1,5 milioni di animali. È infatti questa la preoccupazione più forte degli studiosi: l’impatto che la plastica ha negli oceani e nelle specie che li abitano.

Il fenomeno più comune è quello dell’intrappolamento, che coinvolge molti animali e uccelli che rimangono impigliati nelle reti o nei resti plastici di imballaggi e sacchetti. Accanto a questo, il problema dell’intossicazione, dovuto all’ingerimento dei polimeri tossici da parte di pesci e volatili che scambiano i frammenti di plastica per cibo. In questo senso sembra che negli ultimi 30 anni 700 specie di animali e uccelli marini hanno subito impatti significativi e alcuni di questi sono ormai a rischio estinzione.

Chris Jordan, Albatross, 2011

Ci sono però questioni che riguardano l’uomo ancora più direttamente. Le microplastiche che vengono ingerite dai pesci sono le stesse che poi verranno trasferite al nostro organismo. Una ricerca dell’Università di Ghent ha stimato che i consumatori di pesce possono ingerire fino a 11mila frammenti di plastica ogni anno e con loro anche le sostanze assorbite. Un caso è quello del mercurio, che viene assorbito dai polimeri, ingeriti dai pesci, che diventano delle spugne in grado di trattenere in grande quantità sostanze che in alte concentrazioni possono diventare dannose per l’uomo.

L’origine del problema

Come arrivano quindi i rifiuti in mare? I 4/5 dei rifiuti entrano in mare sospinti dal vento o trascinati dagli scarichi urbani e dai fiumi. Il resto è prodotto direttamente dalle navi che solcano i mari, soprattutto pescherecci ma anche navi mercantili ed imbarcazioni turistiche di tutte le stazze, che riversano i loro carichi in acqua, in modo accidentale e purtroppo anche intenzionale alle volte.

Ma viene quindi da domandarsi: perché proprio l’acqua? E perché proprio in mare? La ragione è una sola: l’acqua è l’unico elemento sulla Terra capace di intrappolare la plastica senza lasciarla mai andare. Quando una bottiglietta abbandonata, un mozzicone di sigaretta o un sacchetto vengono dispersi nell’ambiente, il tragitto li porterà inevitabilmente ad un corso d’acqua (o sui litorali) restando così intrappolati, con traguardo finale il mare. Se questo non avviene la sorte di questi rifiuti non è molto diversa visto che un residuo di plastica, degradandosi fino alle sue composizioni minime (le suddette microplastiche per l’appunto), filtra nel terreno e arriva quindi alle falde sottostanti o a corsi d’acqua sotterrai che hanno il loro sbocco in mare. Che esse quindi siano plastiche di grandi dimensioni o micro, l’unico destino della plastica che non viene stoccata a dovere è quello di finire in mare.

Le microplastiche hanno invaso il pianeta

Se da un lato il problema più visibile è quello delle isole di plastica, dall’altro quello che si cela nelle profondità oceaniche è ancora più importante, visto che il 94% dei rifiuti si trova nei fondali marini. Dalla Fossa delle Marianne ai poli, residui di plastica sono stati trovati praticamente ovunque nei mari e negli oceani.

Ma non si può più parlare solo di acqua. Recenti studi hanno dell’incredibile e hanno identificato la presenza di microplastiche anche sui ghiacciai. Gli autori di una ricerca sviluppata dagli scienziati dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Milano Bicocca hanno descritto e quantificato per la prima volta la presenza di microplastiche sul Ghiacciaio dei Forni, nel Parco Nazionale dello Stelvio. La quantità di plastica trovata, durante una spedizione della scorsa estate, era di circa 75 particelle per ogni chilogrammo di sedimento ed è comparabile al grado di contaminazione osservato in sedimenti marini e costieri europei. Si stima che nell’intera lingua del ghiacciaio siano presenti circa 150 milioni di frammenti di plastica, portati dall’inquinamento diretto degli escursionisti o trasportate dai venti.

Un altro studio, pubblicato sempre nell’aprile di quest’anno, effettuato sui Pirenei francesi, pubblicato su Nature, dimostra come le microplastiche possano viaggiare per moltissimi chilometri nell’aria fino a raggiungere alte vette montane. Nelle aree esaminate, localizzate a oltre 100 chilometri dalla città più vicina, si è documentata la costante presenza nel terreno di pezzi di plastica spessi dai 10 e i 150 micrometri (l’ordine di scala di un capello), con una concentrazione paragonabile a quella di una grande metropoli come Parigi.

Il demone plastica

Ci ritroviamo quindi, a circa 70 anni dall’invenzione di questo materiale, a incolparlo di una delle emergenze ambientali più urgenti degli ultimi anni, che coinvolge chiunque e che quindi ci impedisce di nasconderlo. Non è la plastica il problema, è la sua produzione incontrollata, la sua gestione mal riuscita, il suo uso sconsiderato ad averci condotto a questa situazione. Dobbiamo ricordarci che la materia acqua per noi è vitale e dobbiamo preservarla, non inquinarla e sprecarla. Fino ad ora abbiamo fatto tutto il contrario.

Un ultimo esempio per capirlo ancora più a fondo: per la produzione di una bottiglia di plastica da un 1 litro e mezzo consumiamo 3 litri d’acqua. Chi è il mostro quindi?

Immagine di apertura: Trash Isles, via ladbible.com

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