Riccardo Paradisi

Genova per noi

Il viadotto Polcevera non è il primo ponte che crolla il Italia. Secondo Riccardo Paradisi il paesaggio italiano ha bisogno di cura e manutenzione.

“Alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione” scriveva caustico Leo Longanesi. Freddura che evocando politici intenti in pose epiche e fasce tricolori a tagliare nastri farebbe anche sorridere se non fosse l’epitaffio amaro, oggi, della strage di Genova. 43 persone inghiottite dal vuoto che s’apre dove un secondo prima c’era il ponte Morandi. In Italia si muore anche così: la strada che muta in voragine e giù a precipizio, nel vuoto e nell’aria: l’elemento in cui evapora un paese capace solo di parole e incapace di cura stabile per le sue fondamenta. La retorica dell’inaugurazione al luogo del lavoro di manutenzione appunto, come diceva Longanesi, che non scherzava quando ricordava che le cose in Italia sono tragiche ma non serie. Del resto il Morandi di Genova – città già travolta da esondazioni e smottamenti – non è il primo ponte che crolla in Italia.

Gli ultimi anni sono stati segnati da un lungo rosario di cedimenti infrastrutturali e morti e feriti. Il 18 aprile dell’anno scorso crollava un viadotto della tangenziale di Fosseno in provincia di Cuneo, nessun morto ma solo per un provvidenziale caso, in quel momento non c’erano veicoli ad attraversare la strada. Ma il mese prima non era andata altrettanto bene: nel crollo del ponte autostradale di Ancona sud erano rimaste uccise due persone. E il 28 ottobre 2016 il cedimento di un cavalcavia a Molteno, superstrada Milano Lecco, uccideva una persona e ne feriva altre quattro. L’elenco sarebbe ancora lungo e si potrebbero aggiungere i due morti nel 2013 per un crollo di un ponte, durante un collaudo, in provincia di Pordenone, o i tre ponti caduti tra il 2013 e il 2015 in Sicilia. Il punto è che l’Italia nelle sue infrastrutture viarie e come nel suo assetto idrogeologico sembra lentamente sbriciolarsi come pane vecchio: per incuria, per improvvisazione, per incompetenza. E certo sarà interessante accertare le responsabilità riguardo la tragedia di Genova – e ci vorranno anni – ma intanto è chiaro che innocente non è nessuno.

Il punto è che l’Italia nelle sue infrastrutture viarie e come nel suo assetto idrogeologico sembra lentamente sbriciolarsi come pane vecchio: per incuria, per improvvisazione, per incompetenza.

A parte Riccardo Morandi, poverino che non merita l’associare del suo nome alla rovina e a cui non si può imputare il fatto che opere concepite e costruite mezzo secolo fa non siano intanto state curate o ricostruite, che i vecchi stralli in calcestruzzo armato usati dall’ingegnere a suo tempo non siano stati intanto sostituiti da stralli più resistenti. Non sono innocenti i concessionari di autostrade che sbalordiscono di fronte al crollo, e sempre meno controllano lo stato dell’arte delle infrastrutture, non è innocente la politica che ha pasticciato a lungo e molto male nelle concessioni e nella manutenzione non investe risorse ed energie perché il lavoro di cura è silente e non offre la visibilità di un’inaugurazione, anche se solo d’un cantiere d’avvio lavori però utile da magnificare nelle lucenti slide delle cose fatte.

Le infrastrutture non danno voti insomma anche se quando crollano, come avvenuto per il ponte Morandi, recidono anche simbolicamente il ponte fiduciario tra cittadini e Stato. Un luogo di transito ormai lo Stato per classi dirigenti sempre più improvvisate, prive d’una visione organica, incapaci d’una idea sull’urbanistica delle città, sulle reti viarie, sul riassetto idrogeologico, sul paesaggio italiano.  Eppure per cominciare basterebbe qualche accorgimento: i contratti di servizio per le concessioni pubbliche dovrebbero per esempio indicare una soglia di spesa obbligatoria per gli interventi di manutenzione. E per quanto riguarda il comparto dei tecnici dello stato tutti sanno che sono pochi e demansionati.  Occorrono più architetti, più ingegneri e geologi in forza allo Stato assunti con concorsi regolari e che vanno efficientati, incoraggiati e premiati finalmente terminando i peana cialtroneschi di chi vede in ogni funzionario statale un fannullone. “Uno Stato senza tecnici, come può gestire autostrade?” ha scritto giustamente Sabino Cassese. Ma il buon senso non è figlio del senso comune alimentato da propagande e retoriche di rottamazione e rivoluzioni permanenti. Il nuovo come paravento dell’accidia e della vecchia, rancida retorica. Quando alla povera Italia servirebbe più silenzio, serio lavoro, cura e manutenzione per quanto hanno fatto i padri nostri.

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