Dietro l'ostilità di Twitter c'è la fine dell'accordo con Google per offrire risultati di ricerca "in tempo reale", che includeva anche aggiornamenti degli status su Facebook, accordo scaduto nel luglio scorso e non rinnovato. Le voci critiche hanno sottolineato gli inconvenienti che una mossa di questo tipo potrebbe arrecare alla leggendaria imparzialità dei risultati di Google, governati dalla fredda logica dell'algoritmo Pagerank, implacabile calcolatore di link in ingresso verso un sito e verso tutti i siti che conducono a quello, in un crescendo di complessità matematica da perderci la testa. Il vanto di Google, e la sua difesa contro ogni possibile contestazione riguardo alla sua ambitissima 'graduatoria' di risultati, era sempre stata l'assenza di ogni intervento umano in tutta la procedura. Pura matematica, nessuna emozione, nessun condizionamento, non siamo mica Yahoo!, noi.
Ma l'annuncio dell'altro giorno sancisce che su internet le cose sono cambiate: hanno preso una piega che forse a Mountain View non avevano previsto, o almeno non nelle sue esatte proporzioni. Come tutte le trasformazioni profonde, anche questa viene da lontano, non si è certo generata in questi ultimi mesi: la straordinaria diffusione di Facebook e Twitter ne è soltanto l'ultimo e più clamoroso segnale. Ma l'impianto ha cominciato a scricchiolare già con il proliferare dei blog, non a caso ribattezzati "portali umani", con il sistema di raccomandazioni di Amazon—quello che vi consiglia libri comprati da chi ha acquistato il volume che avete messo nel carrello— e con Linkedin—che ancora prima dell'esplosione di Facebook consentiva di creare reti di professionisti connessi fra loro in modi inediti.
Con questi servizi le informazioni, su internet, tornavano prepotentemente a essere mediate da persone, che le avevano vagliate, le consigliavano e le riproponevano agli altri, poco importa che si trattasse di una notizia in un blog, di un libro o di un curriculum da segnalare. Il "filtro umano", il passaparola veicolato da strumenti tecnologici in grado di moltiplicarne l'effetto a dismisura, si affacciava sulla scena, favorendo la nascita del complesso insieme di servizi e tecnologie ribattezzato Web 2.0.
All'interno di quel marasma ingovernabile, solo l'asettica azione di Pagerank poteva dare ordine e gerarchia, consentendo di trovare anche i contenuti più sperduti e frammentari, ma paradossalmente proprio lì dentro c'era già il seme del cambiamento, che sta prendendo corpo in questi giorni, sancito dall'annuncio di Google. Impercettibilmente, gli equilibri della Rete si stavano spostando e il piatto della bilancia cominciava a pendere dalla parte di Facebook e delle reti sociali in genere. Sempre più spesso ci siamo ritrovati ad aprire una pagina web perché ci era stata segnalata da qualcuno e non perché l'avevamo reperita su un motore di ricerca.
Enormi quantità di traffico su internet sono ormai generate dai link di Twitter, Facebook e degli innumerevoli servizi che consentono di condividere contenuti online. Naturalmente l'interazione fra motori e reti sociali è molto complessa e il ruolo di Google resta assolutamente cruciale. Ma in questo passaggio da un web che collega i documenti a un web che collega le persone—com'è stato definito da Paul Adams, ex dipendente di Google, nel suo recente Grouped—Mark Zuckerberg di Facebook è in anticipo rispetto ai due ex studenti di Stanford Larry Page e Sergej Brin che nel 1997 hanno cambiato per sempre il nostro modo di usare la Rete. Intendiamoci, la situazione attuale è ben lungi dall'essere ideale perché, come ogni fenomeno su internet, anche le reti sociali hanno avuto una proliferazione incontrollabile.
Così le segnalazioni affidabili hanno lasciato il posto a uno scenario in cui le zone 'grigie' si moltiplicano e l'uso spregiudicato di tecniche di marketing rende spesso il "filtro umano" praticamente inservibile in quanto pubblicità mascherata e per questo più insidiosa. Ma Google non aveva alternativa, doveva aprire il proprio motore anche alle reti sociali. Sfumate le ipotesi di accordo con Facebook, che ha stretto un'alleanza con Bing, il motore di ricerca di Microsoft, ha scelto la strada di fare da sola, di costruirsi un suo mondo nel quale attrarre gli utenti per offrire loro tutto ciò di cui hanno bisogno. O quasi.
Non è certo la prima a provarci. Ci aveva già pensato Microsoft, nel 1995, proponendo agli utenti del nuovo sistema operativo una rete chiusa—Microsoft Network—con contenuti loro riservati e, in seconda battuta, visto il dilagare di internet, legando indissolubilmente il proprio browser Internet Explorer a Windows 98. Con il risultato di sbaragliare il concorrente Netscape Navigator e di andare incontro a un lungo e complesso iter processuale per difendersi dall'accusa di monopolio. Era questo anche il sogno dei portali, siti generalisti con contenuti e servizi vari, che si moltiplicavano in Rete tra la fine degli anni Novanta e i primi del 2000. E oggi i maggiori protagonisti di internet si stanno mettendo d'impegno per riuscirci.
Non a caso Facebook arricchisce di nuove funzioni il suo servizio in modo che sia sempre meno necessario uscirne per navigare altrove. L'efficacia di una simile strategia si misura in termini di stickiness (appiccicosità), ovvero quanto si riesce a trattenere un utente all'interno del proprio sito. Ma internet ha più volte dimostrato di mal tollerare una logica di questo tipo. I "giardini recintati" non funzionano nell'ecosistema della Rete, equiparabile piuttosto al caotico proliferare di una foresta pluviale, per usare una metafora del giornalista e studioso Steven Johnson. E a oggi è difficile dire se Google sarà il primo a vincere una simile, ardua, scommessa.
Stefania Garassini, giornalista esperta di nuovi media, vive a Milano. Laureata in filosofia, ha fondato e diretto Virtual, il primo magazine italiano sulla realtà virtuale e sulle nuove tecnologie della comunicazione e dei media digitali.