Sbagliamo a essere entusiasti di Clubhouse?

È l’app del momento. Ma nell’euforia di adottarla, forse ci stiamo dimenticando delle tante contraddizioni che porta con sé.

Clubhouse è un nuovo social media interamente basato sull’audio in cui gli utenti entrano in “stanze” dove possono ascoltare un gruppo di persone che parlano fra loro ed eventualmente partecipare alla discussion. La terminologia e la struttura ricordano molto da vicino quella delle chat testuali, IRC su tutte. Le stanze, nelle intenzioni degli ideatori dell’app, favoriscono lo scambio di idee e le conversazioni aperte. Nei fatti, spesso le stanze sono canali broadcast di pochi VIP, esperti e personalità di varia estrazione, o presunti tali, che parlano mentre una schiera di utenti ascolta senza intervenire. In alternativa, l’app pullula di chat fra amici, che disquisiscono virtualmente degli argomenti più disparati.

Il successo di Clubhouse ricorda quello di Pokèmon Go. Quando uscì il gioco di Niantic era estate: a milioni si lasciarono sedurre dalla caccia al mostriciattolo con la realtà aumentata. Con la scusa del gioco si finivano per fare chilometri a piedi, e così si giustificava la nevrosi digitale con un risvolto salutistico. Oggi al contrario siamo chiusi in casa, isolati, con una vita relazionale ridotta ai minimi termini. Non ci sembra vero di poter aprire un’app, entrare in una conversazione, avere l’impressione di partecipare a un simposio, fare networking con un gruppo di altre voci senza volto e senza corpo, quindi senza il peso del confronto estetico che c'è su Instagram, o delle relazioni forzose imposte da Facebook. 

Una chatroom di Clubhouse in cui 5000 persone ascoltano una disquisizione su UFO e vita aliena sulla terra.

Come ha fatto Clubhouse ad ascendere così rapidamente nell’empireo dei social? Semplice, arruolando decine di VIP per parlare dei fatti propri o spiegare come hanno fatto successo a mezzo smartphone – è il modello Masterclass –, e convincendo così a cascata una schiera di millennial annoiati dai social più popolari ad unirsi a questa pseudo-elite fabbricata ad arte. Un banale sistema di iscrizione basato sugli inviti ha convinto anche i più scettici, compresi quelli che vedono Facebook e Instagram come il male assoluto, a dedicare ore della propria giornata all’ennesima creatura delle élite, quelle sì vere e miliardarie, della Silicon Valley.

Clubhouse ha pure il vantaggio di apparire come un’app indipendente che non ha niente a che fare con gli imperi della profilazione di Zuckerberg e soci, una ventata di aria fresca in un mercato dominato da grandi gruppi e app da miliardi di utenti. Non è proprio così. L’investimento iniziale di dieci milioni è arrivato dalla Andreessen-Horowitz, anche nota come a16z, praticamente la Goldman Sachs delle startup siliconvalligiane. Marc Andreessen e Ben Horowitz sono diventati miliardari azzeccando investimenti su aziende del calibro di Facebook (Andreessen è ancora oggi membro del CdA presieduto da Mark Zuckerberg), Instagram (da prima che Facebook se la comprasse), Pinterest, più tante altre social e digital ventures di successo. A gennaio di quest’anno la firm ha guidato un nuovo round di investimenti da 100 milioni di dollari, che ha fatto schizzare la valutazione di Clubhouse oltre il miliardo. 

La nuova app, caso mai, è una pessima notizia per il mercato dei podcast, in ascesa negli ultimi anni, e per chi ci ha investito molto – come Spotify, ad esempio.

Questo ci fa capire due cose. Primo: se volevate davvero sentirvi degli hipster del nuovo social network audio, beh, è già troppo tardi. L’era pionieristica di Clubhouse è finita da almeno qualche mese. Presto arriverà pure l’app per Android (per ora Clubhouse è disponibile solo su iOS) e viene da pensare che anche il sistema degli inviti verrà forse rimosso (per giustificare un miliardo di valutazione, del resto, servono tanti utenti e i loro dati). Secondo, Clubhouse non è un’alternativa a social come Facebook e Instagram, al limite è un servizio complementare.

La nuova app, caso mai, è una pessima notizia per il mercato dei podcast, in ascesa negli ultimi anni, e per chi ci ha investito molto – come Spotify, ad esempio. La facilità con cui si può creare una stanza e iniziare a parlare, infatti, altro non è che una rapida disintermediazione dello strumento audio e una disruption dell’unico settore dell’informazione mainstream che sembrava aver retto all’impatto dei social: quello della voce e della radio. E ciò a cui stiamo assistendo su Clubhouse è il prodromo di una banalizzazione dell’audio che presto supererà un punto di non ritorno. A che serve investire su un buon microfono, imparare a montare un contenuto audio, o – non sia mai – pensare a qualcosa di interessante da dire? Basta collegarsi a Clubhouse, e pronti via: con una qualità pessima ma sufficiente si può subito far parte di un pubblico che ci mette l’avatar, avere l’illusione di partecipare a un dibattito ignorandone la natura effimera, sentirsi parte di uno stuolo di opinionisti (o di un pubblico che s’illude di aver accesso ai propri beniamini famosi). Non lo dico io, lo dicono senza mezzi termini dalla Andreessen-Horowitz sul sito ufficiale della società:

“In un panorama di social media che tipicamente ti costringono a passare ore a fissare uno schermo, spesso passando distrattamente tra più schermi, Clubhouse ti permette di fare multitasking mentre ascolti. Come i podcast, puoi ascoltare mentre fai una passeggiata, pieghi il bucato o ti alleni. Può anche essere il fulcro della tua serata, come assistere a una conferenza o a un discorso. Ma è anche interattivo, quindi se hai qualcosa da dire, puoi alzare la mano e intervenire. Poiché stai ascoltando le persone parlare, Clubhouse offre uno scambio di idee in tempo reale, non solo il consumo di contenuti statici realizzati ad arte. È un'esperienza nuova che porta umanità e contesto all'impegno sociale online.”

Marc Andreessen & Ben Horowitz
Marc Andreessen & Ben Horowitz

Il risultato – ora che le élite hanno lasciato spazio agli inviti di massa – sono conversazioni casuali e disorganizzate, raramente interessanti, spesso fonte di disinformazione non moderata, paragonabili a un brusio di fondo, dei talk show improvvisati e senza sostanza. Gli esperti si moltiplicano e tutti hanno improvvisamente qualcosa da dire, per ore e ore. Nelle room italiane sono tutti esperti di digitale, di giornalismo e new media, di coaching, di business development e influencing marketing. Nessuno si preoccupa davvero di verificare i titoli o la credibilità di chi sta parlando. La maggior parte delle persone così ascoltano e si illudono di aver portato a casa qualcosa da una conversazione a cui a stento hanno prestato l’orecchio mentre portavano a spasso il cane. 

Ciò nonostante Clubhouse è già oggi, al netto di ciò che diverrà con l’arrivo delle moltitudini (o del grosso dello sciame, per dirla con Byung-Chul Han) un esperimento riuscito. E con il suo miliardo di valutazione da poco raggiunto, è un’altra – l’ennesima – impresa siliconvalligiana a cui accettiamo di buon grado di regalare il nostro tempo, le nostre risorse mentali, la nostra preziosa attenzione. Attirati dalla gratuità, dalla novità, e da un’esclusività che non è tale, ancora una volta ci facciamo supinamente prodotto, contribuendo ad accentrare valore e denaro verso la solita sparuta cerchia di maschi ricchi e privilegiati delle élite tecnologiche.

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