Le smart cities e l'Italia

In Italia, i nuovi sistemi "smart" possono costituire un modo discreto e rispettoso d'intervento su un patrimonio culturale sempre più preservato? Possono aiutare, se non nella ricostruzione, almeno nel processo di riappropriazione dei nostri centri terremotati, come nel caso dell'Aquila 2.0? Con quali rischi?

Intorno al fenomeno delle città sensibili, molto è stato detto negli ultimi anni da vari punti di vista. Ma è proprio l'ampiezza di questi punti di vista a rendere la questione, forse, ancora problematica e a tratti fumosa. Stefania Garassini ne parla nel suo recente Op-Ed. Il punto è che, quando si parla di smart cities, ci si riferisce a una pluralità di fenomeni non tutti annoverabili perfettamente sotto la stessa classificazione. Come è possibile, ad esempio, descrivere con la stessa parola reti – fisse e fisiche – di dispositivi di monitoraggio ambientale in tempo reale e app o piattaforme online – del tutto mobili e intangibili – che permettono la raccolta di dati intorno a qualsivoglia indicatore? Come possiamo non notare quantomeno una differenza "filosofica" tra sistemi che rilevano dati dal territorio e sistemi che, invece, depositano su di esso nuovi contenuti attivamente "user-generated"?

Ovviamente, ciò che accomuna queste pratiche è, appunto, il fatto che hanno tutte a che vedere con la raccolta o la produzione di grandi masse di dati, tendenzialmente sempre georeferenziati. Ma è in quale modo essi generino effetti fisici sulle città a essere ancora materia fumante di studio e approfondimento. E ciò è vero soprattutto perché le città non sono tutte uguali, e non tutte si prestano con la stessa facilità ad essere pervase, fisicamente o meno, da reti. In Italia, ad esempio, dove per lo più le città sono sistemi a crescita nulla o negativa, in che modo l'emergenza di questi nuovi sistemi 'smart' viene a patti con la materia 'dumb' dei centri storici e delle vecchie infrastrutture?

Possono questi dispositivi costituire un modo discreto e rispettoso di intervento sul nostro patrimonio culturale sempre più preservato e, per questo, in qualche modo, persino troppo 'congelato'? Oppure possono aiutare, se non nella ricostruzione, almeno nel processo di riappropriazione dei nostri centri terremotati, come nel caso dell'Aquila 2.0? E infine, qual è il rischio di affidare la sopravvivenza delle nostre città a sistemi connessi così strettamente a tecnologie che, per natura, hanno la vita breve?

Nella foto: la locandina del convegno Media City new spaces, new aesthetics, 7-9 giugno 2012, Triennale di Milano

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