La fetta di Polenta costruita dall'Antonelli in diverse fasi tra la metà e la fine dell'Ottocento è un'architettura estrema sia per le sue dimensioni (la pianta a triangolo si restringe da 5 metri a 54 cm lungo i 16 metri del fronte stradale lungo la via Giulia di Barolo), sia per il senso di spaesamento che si produce nel percorrere i nove piani dell'edificio. Le dimensioni ristrette costringono a continue rotazioni che proiettano il visitatore in una dimensione del tutto introversa, intima, separata dal resto della vita che scorre per la strada.
Franco Noero per l'estate del prossimo anno ha intenzione considerare chiuso il lavoro sullo spazio di questo edificio che in questi anni ha offerto all'esplorazione degli artisti della sua galleria. La scelta di affidare per la prima volta a un designer, e non a un artista, l'esplorazione di questi spazi inusuali se da un lato sembra voler restituire una qualità domestica a questo luogo, dall'altro è naturale che sollevi una serie di interrogativi sull'allargamento d'interesse del mercato dell'arte che guarda al design con sempre maggiore interesse e che ha accolto il lavoro di Gamper con "grandissima attenzione".
Le stanze torinesi di Martino Gamper
La trasformazione della storica 'fetta di polenta' in un condominio abitato da personaggi immaginari parte da un processo d'immedesimazione dove le stanze arredate alludono a luoghi della mente.
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- Francesca Picchi
- 24 ottobre 2011
- Torino
Il tuo intervento sullo spazio dell'Antonelli è affidato a oggetti che dialogano in modo domestico con lo spazio
Quando Franco Noero mi ha invitato a pensare un intervento dentro lo spazio di quest'edificio, per prima cosa mi ci sono installato all'interno: ci ho vissuto per un paio di mesi.
Mi sono portato dietro gli attrezzi e tutto il necessario per intervenire sui pezzi e ho installato un laboratorio a pochi metri dalla casa.
A Franco ho chiesto solo una branda. Poi pian piano, a partire dal vuoto, ho incominciato a pensare ad arredare lo spazio. Ma più che concepire un vero e proprio progetto d'arredo ho incominciato col costruire i pezzi che mi servivano per vivere. E la cosa strana è che il primo pezzo che mi sono costruito è stato un cestino per i rifiuti. Mi sono reso conto che buttare via è un atto fondamentale della nostra vita, soprattutto in uno spazio vuoto.
Tutto è cominciato dall'ultimo piano, dove ti sei installato, poi com'è proseguito il lavoro?
Girando per Torino ero attratto dall'idea del condominio abitato da molte famiglie, anche perché è una condizione più rara a Londra dove abito e dove prevalgono le case unifamiliari. Da quì sono partito a immaginare le persone che avrebbero abitato questo condominio.
Ti sei immaginato gli abitanti, come in una fiction?
In qualche modo si, anche se non avevo un'immagine molto chiara.
Girare per Torino alla ricerca dei mobili usati è stato un passaggio che mi è servito a conoscere meglio la città. In questo modo, a partire dai mobili scartati, mi sono fatto un'immagine degli interni, come erano vissuti, abitati…
Lavorando sui mobili, inoltre, può capitare di trovare in fondo a un cassetto delle cose appartenute a qualche vecchio proprietario: una ciotolina, piuttosto che un pizzo, qualche piccolo oggetto…
Man mano che trovavo i mobili, quindi, ho cominciato ad arredare "su misura" le singole "fette" della casa che sono molto diverse tra loro, anche se hanno un taglio simile. Per la prima settimana non riuscivo neanche a capire in quale piano mi trovavo ma poi, pian piano, ho cominciato a cogliere le differenze e a capire che i piani sono tutti diversi tra loro. È importante perché è lo spazio che ti guida
Per me il processo è una scoperta. Ogni pezzo che faccio, imparo, vedo dei dettagli che mi fanno intravedere possibilità nuove. È per quello che mi piace lavorare in questo modo. Quando lavoro, dopo aver attaccato un pezzo, magari non mi piace quello che sto facendo, ma vado avanti a tagliare e piano piano la forma viene fuori…
Entrando in una galleria con una forte connotazione di luogo per l'arte, hai voluto enfatizzare il valore funzionale degli oggetti e degli spazi. Il lavoro che hai fatto sullo spazio si può considerare, sostanzialmente, un arredamento disegnato su misura?
Essenzialmente volevo creare un appartamento per ogni piano.
L'arredo di ogni singolo piano descrive un'assenza: quella dei personaggi che è dato conoscere solo attraverso gli oggetti che accompagnano lo svolgersi della loro vita immaginaria
Mi interessava proprio fare una studio di tipo, come dire, sociologico. Capire chi erano i personaggi a cui sono appartenuti questi mobili. Ho cercato di mescolare pezzi "borghesi" con pezzi "industriali" come per esempio la cucina che potrebbe essere appartenuta a un operaio della Fiat, piuttosto che un pezzo costruito a mano, su misura, da un falegname: mi interessava reagire al luogo. Ogni materiale ha una connotazione precisa, una storia che può essere legata alla memoria personale di ciascuno.
Come ti sembra sia stato accolto questo lavoro da un pubblico che è essenzialmente legato al mondo dell'arte?
Stranamente la gente non si è chiesta se si trattasse di arte o design. Ha subito percepito che è una casa. Penso che la gente capisca che è una mostra diversa dalle altre, dove i mobili raccontano una storia diversa. È questo è stato il mio punto di partenza. L'ho subito detto a Franco. A me interessa confrontarmi con l'edificio mentre il discorso della galleria d'arte mi interessa un po' meno.
Ma qual è la tua posizione rispetto a questa ambiguità tra arte a design
Penso che bisogna stare molto attenti a non confondere quello che un designer o un artista fa, e il mercato. Non bisogna giudicare un pezzo in base al contesto in cui il pezzo viene trattato. Penso che ogni tanto si parla troppo di mercato e poco di lavoro. Quando Marc Newson ha fatto la famosa mostra da Gagosian tutti parlavano del fatto che una gallerista si interessasse al design e delle quotazioni raggiunte dai pezzi ma quasi nessuno è entrato nel merito del lavoro.
Ma il fatto però che un gallerista come Noero si interessi al tuo lavoro e che per la prima volta faccia una mostra con un designer avrà pure un senso?
Naturalmente non voglio trascurare la realtà del mercato. Per quanto mi riguarda, però, non interferisce col mio modo di lavorare. È un atteggiamento forse è legato anche alla mia storia personale. Quando sono uscito dal Royal College mi sono detto "preferisco a fare pochi pezzi, anche one off, piuttosto che farne tanti con un produttore, con i quali magari non riesco neanche a sopravvivere" (e sappiamo oggi quanto è difficile per molti giovani designer).
Mi ha aiutato il fatto di avere questa preparazione da falegname per cui ero anche in grado di costruirmi i pezzi da me.
Quando qualche anno dopo, mi sono trovato a lavorare a Milano, il ruolo del designer era definito in modo molto netto. Io però avevo sempre pensato che il design facesse parte dell'arte in quanto processo creativo: mi interessava cercare di essere creativo col mestiere stesso. E comunque, per il mio modo di vedere, era proprio strano cercare di fare il designer come volevano fare tutti quanti, come faceva per esempio Castiglioni (giusto per fare un esempio di qualcuno che ammiro) perché lui era un architetto molto bravo, usava disegnava, mentre io posso anche disegnare ma ho bisogno di un mezzo più immediato e preferisco "attaccare" le cose. Quindi mi sono detto da subito: perché devo imbarcarmi in una cosa che mi obbliga a una deviazione a cinque angoli, se posso arrivare direttamente al punto e fare da me?
Poi, già che mi prendo questa libertà di fare pezzi unici, (che, se vuoi, si può considerare anche una dipendenza o un ossessione), perché devo mettermi a fare delle serie limitate? Fare una serie di pezzi unici tutti uguali, a me non interessa. Dopo il primo, basta. Passo ad altro. Ho già tante idee per un pezzo talmente diverso! Per me è proprio qui che l'idea di Art Design è sbagliata. Quando si fa l'ennesimo pezzo uguale con solo qualche minima variazione… alla fine si tratta già di produzione.
Se devo riferire il discorso Art Design al mio caso personale, devo dire che, per me è stata un'esperienza molto importante la collaborazione con Francis Upritchard (mia moglie, che è scultrice), e Karl Fritsch (che è gioielliere). Abbiamo incominciato qualche anno fa per Kate MacGarry, a Londra, e più recentemente questa collaborazione è continuata in una mostra per la galleria Govett Brewster, in Nuova Zelanda intitolata "Gesamtkunsthandwerk". Ci abbiamo tenuto ad aggiungere "hand", ossia "fatto a mano", per insistere proprio sul tema del lavoro fatto a mano.
Dicevo che è stata un'esperienza molto importante per me, perché abbiamo lavorato in modo tale da non percepire una separazione tra pezzi; i mobili si mescolano alle sculture e ai gioielli — alcuni li abbiamo fatti proprio insieme — e in generale è stato un'occasione per esprimerci senza separazioni o confini disciplinari; senza pensare dove potenzialmente iniziasse o finisse un lavoro.
Comunque il bello di questo mestiere è che ti offre la libertà di scegliere su quale sponda lavorare. Da un lato completamente opposto, per esempio, mi interessa anche fare i progetti per Magis, che è un'azienda che produce, e lavora molto all'ingegnerizzazione del pezzo, per cui si fanno tutta una serie di disegni e prototipi…. Direi che per me il punto di partenza è molto importante ma poi il pezzo, lo lascio andare per la sua strada. E non escludo neanche che un giorno possa anche tornare per strada…
La tua storia però è legata al pezzo unico, al modo "azionista" di lavorare, attaccando fisicamente i pezzi in tempo reale
Perché il pezzo unico per me rappresenta la libertà totale. Se io dovessi fare un disegno preciso prima di costruire un pezzo, si verrebbe a creare una distanza troppo strana per il mio modo di vedere. Penso che proprio facendo, uno si rende conto. È questa l'essenza del processo creativo. Se inizi col disegno già definito e poi semplicemente lo realizzi, in questo modo non impari niente. Per me il processo è una scoperta. Ogni pezzo che faccio, imparo, vedo dei dettagli che mi fanno intravedere possibilità nuove. È per quello che mi piace lavorare in questo modo. Quando lavoro, dopo aver attaccato un pezzo, magari non mi piace quello che sto facendo, ma vado avanti a tagliare e piano piano viene fuori…
Paradossalmente mi viene in mente quello che sosteneva Michelangelo: lui lavorava per levare, liberando le sculture dal blocco di marmo. Tu (con le dovute differenze) tiri fuori il tuo pezzo, liberandolo da un vecchio mobile fuori uso che nessuno vuole più
I vecchi mobili hanno un carattere molto forte, per cui mi trovo a confrontarmi con un'estetica molto pesante, ingombrante. Non sempre mi piacciono i pezzi che scelgo, anzi paradossalmente a volte scelgo di lavorare su pezzi che non mi piacciono perché solo in questo modo il lavoro diventa una vera e propria sfida. Noi designer abbiamo un gusto ben preciso, invece con questi mobili devo mischiare stili, epoche, materiali, atmosfere diverse. Per me è molto interessante poter sfidare qualcosa che è talmente fuori dal tempo da essere uscito dal ciclo di consumo ed essere al di fuori del nostro panorama estetico.
Sarebbe interessante capire come leggi un pezzo e come decidi da dove partire. Da che parte inizi la vivisezione del pezzo?
Devo dire che il primo taglio è sempre il momento più difficile. Mi rendo conto sempre di più che il "fare" e il "pensare" sono due mondi molto diversi. Penso che vi presiedano a due lati diversi del cervello. Ogni tanto faccio molta fatica a iniziare. Ho bisogno di due o tre giorni per entrare in quel mood…
Hai un rapporto fisico con l'oggetto: lo smonti, lo tagli, lo ricomponi… magari scegli solo un minimo frammento che rappresenta il tutto e che poi entra in un'altra composizione
Succede spesso che il 90% del pezzo lo butto. Inizialmente tutto è possibile. Devi leggere, devi scegliere, devi capire quale pezzo vuoi tenere e quale vuoi eliminare, perché quando tagli produci inevitabilmente due pezzi.
È come una specie di proliferazione cellulare...
... e non sempre il pezzo che vuoi tenere è il migliore