Quel che resta del Salone 2022

Dopo averlo raccontato per un’intensa settimana, Domus risponde cambiando la domanda: cosa resta di Milano?

Cosa resta dunque di Milano dopo il Salone 2022? Una domanda non retorica, perché nel suo 60° anniversario il Salone ha mostrato di coincidere sempre più con Milano, con la sua essenza, più che con il suo brand. Più che lo specchio di una città prostrata dalla pandemia e angosciata dalla guerra a dieci ore dalla Madonnina il Salone si è confermato il suo demone tentatore, il diouscolos che alla retorica delle parole preferisce passare alla costruzione dei fatti. In questo caso, dei manufatti. 

Cosa resta di Milano dopo la Design week 2022 e prima della nuova grande crisi che tutti gli indicatori mettono all’autunno prossimo venturo? Per rispondere è utile seguire un’analisi di Paolo Bricco, che sul Sole 24 Ore ha avvisato della necessità di tornare ad altre due date cruciali nella storia di Milano: 1945 e 1992. Più che date punti di non ritorno, veri passaggi di stato in cui Milano mostrò la capacità di reinventarsi in profondità, rigenerandosi in una metamorfosi che sprigionò inedite energie e indici di senso. Non solo alla città e al Paese ma a tutto un mondo. 

Università Statale di Milano. Foto Marco Menghi

All’angoscia del Dopoguerra e al fragile entusiasmo della cosiddetta Ricostruzione, Milano seppe offrire l’etica e l’estetica, le infrastrutture e i capannoni ma soprattutto la visione degli animal spirits d’imprenditori superstiti alle catastrofi del Fascismo e della guerra (persa). Alla fame atavica di masse di destitued people in esodo eterno dal Meridione, Milano fornì i mezzi economici e l’immaginario civile, ovvero la possibilità essere, per la prima volta, non volgo né suburra ma individui e cittadini protagonisti della propria storia. Alle élites della cultura e delle professioni, agli architetti e agli ingegneri, ai designer e agli artigiani, agli editori e ai giornalisti, e anche ai sindacalisti e i politici, la Milano della Ricostruzione offrì una piattaforma programmatica che trasformò il Made in Italy da “saper fare” a “saper essere”, da abilità pratica a saggezza estetica, da accessorio a infrastruttura. Aprendo così tutta la mitologia successiva, che di colpo oscurò il mito decadente e romano della Dolce vita imponendo un lifestyle decisamente più sobrio e settentrionale. 

Diversamente, ma mostrando la stessa resilienza e creatività, giunse la Milano 1992. Alla fine di una drammatica e infinta crisi, quella della Repubblica dei partiti, della commistione fra politica e affari che aveva trovato nel finanziamento illecito e l’ottimismo d’accatto un riscatto infame alla stagione del Terrorismo. Nel crepuscolo della Prima repubblica, la “capitale morale divenuta immorale” seppe innescare una nuova ripartenza, grazie a un mai spento calvinismo interiore, la propria cultura politecnica e un ruolo, inedito, della magistratura. 

Università Statale di Milano. Foto Marco Menghi

Comunque la si pensi, quella del dopo 1992 fu la terza Grande Milano del Novecento, dopo quelle degli anni Trenta e Sessanta. Un metaluogo capace di intuire e cavalcare il redesign imposto dalla storia, in questo caso dalla Terza globalizzazione che stava trasformando le catene mondiali del valore. Mentre il sistema dei partiti naufragava nella miseria della retorica e l’infamità della pratica, le imprese di Milano e del Nord furono in grado – da sole, senza alle spalle nessun sistema di rappresentanza – di connettersi al network delle catene globali, inserendosi da protagoniste nelle piattaforme produttive internazionali e dominandole in settori chiave. 

Fu qui che per la seconda volta, dopo gli anni Sessanta, il sistema della “casa all’italiana” di cui parlò Giò Ponti nell’editoriale del suo secondo mandato di direttore di Domus rappresentò il modello per la rinascita di Milano. Una matrice presto imitata da moda, chimica, meccanica, automotive, che lanciò Milano nel circuito delle Global cities a cui l’architettura fornì con sicurezza crescente un alfabeto urbano e comunitario. Proprio come era accaduto negli anni Trenta e Sessanta, ma questa volta in una prospettiva globale dove le funzioni immateriali e la capacità di creare nessi inediti contano quanto la produzione e i servizi, perché rappresentano i punti di connessione fra le idee e la realtà.

Università Statale di Milano. Foto Marco Menghi

E ora? Cosa resta di Milano alla fine del Salone 2022? Il passaggio è altrettanto cruciale e ancor più stretto. Perché dopo la grande recessione del 2008, la crisi urbana dei debiti sovrani del 2011 e la pandemia del 2020, Milano vive una guerra a poche ore di macchina. Rispetto all’Italia, Milano è avvantaggiata perché nessun’altra città ha la sua struttura economica e finanziaria, tecnologica e intellettuale, creativa ed estetica. Ma rispetto al 1945 e al 1992 questa volta la sfida è identitaria. Perché nessuna altra città d’Italia ha vissuto come Milano il silenzio paralizzante della pandemia. E nessuna capitale globale ha vissuto come Milano la paura della perdita propria leadership che affonda il proprio potere nel fare, nel costruire, nel dare forma al mondo. 

È qui dunque che si può trovare un senso al Salone del Mobile 2022 e alla ritrovata energia del Fuorisalone, che sebbene non paragonabile a quelle precedenti al lockdown meriterebbe un discorso a parte. Nel suo sessantesimo compleanno, la Design Week ha dimostrato che nonostante i successi (+27 per cento di vendite) il design italiano non è un fenomeno commerciale, che si nutre del desiderio di nuova centralità della casa e anche di respingere le ragioni della guerra con la fratellanza in nome della bellezza. E’, piuttosto, qualcosa di più profondo e radicale, che ha a che fare con l’essenza stessa dei luoghi e delle comunità, delle città intese come connessione fra l’urbs, la civitas e la communitas, ovvero le architetture, le regole e la comunità. 

Dior by Starck. Foto Francesco Secchi

Il Salone del Mobile 2022 è stato la dimostrazione che Milano resta allo stesso tempo il codice genetico e la fabbrica di un Paese ipocrita e ingenuo, complicato e meraviglioso, opportunista e generoso. Un paese che delega, ancora una volta, a Milano di essere all’altezza del suo passato ma soprattutto del suo futuro di cittàmondo, in cui si elabora la sintassi per sopravvivere e magari prosperare nella Quarta globalizzazione, che non è affatto morta ma sperimenta sulla pelle di tutti noi l’ennesima, dolorosa, salvifica trasformazione.

Immagine in apertura: Circolo Filologico. Foto Francesco Secchi