L'improvvisa compressione del tempo in cui la pandemia ci ha precipitati ha fatto sì che le priorità, se non le urgenze delle nostre società, si siano delineate con inedita chiarezza, a volte anche con durezza.
Il modo in cui studieremo è diventato sempre più chiaramente una matter of equality, di parità di accesso a risorse, spazi e opportunità: un processo di evoluzione bruscamente accelerato negli ultimi due anni. Come studieremo? Quali implicazioni hanno e avranno le emergenze di innovazione e inclusione sugli spazi del nostro vivere e del nostro apprendere, quegli spazi da sempre oggetto/soggetto d’elezione dell'operare progettuale?
Nel 2020, l’UNESCO International Commission on the Futures of Education ha pubblicato un documento di programma sintetico ma molto chiaro, Education in a post-COVID world: Nine ideas for public action. Nelle priorità indicate dalla commissione — nella quale troviamo anche Arjun Appadurai, l’antropologo studioso del mondo globalizzato, e il sociologo dei new media Evgeny Morozov — leggiamo: “Espandere la definizione del diritto all’istruzione in modo che includa l’importanza della connettività e dell’accesso alla conoscenza e all’informazione”, “assicurare la presenza di formazione scientifica all’interno dei curricula di studi”, “proteggere gli spazi sociali offerti dalle scuole”.
Spazi intangibili: la tecnologia e la relazione educativa
Lo spazio nelle sue molteplici accezioni è nominato come prioritario, e così l'attenzione a indirizzare attivamente il ruolo della tecnologia. In fondo, il 2020 è stato l'anno della didattica a distanza ma anche del digital divide, e ci troviamo quindi in un delicato guado dove si contrappongono letture della tecnologia come luogo enabling e connecting, ma anche come potenziale buco nero nel quale il mondo della formazione può cadere, demandando a provider e aziende non solo l'infrastruttura ma la gestione e il contenuto stessi dell'educazione, altrimenti appannaggio della società e del welfare principalmente pubblico.
Certo, il dibattito sulle responsabilità e potenzialità della tecnologia nel costruire i nostri spazi futuri, le nostre città future, non è così polarizzato e miope. Alla Biennale di quest'anno, ad esempio, il padiglione tedesco affida a diverse persone il racconto di 2038, un’eutopia futura dove everything went well; e tra loro c’è anche Audrey Tang, ex ministra taiwanese ai Digital Affairs, a presentarci un mondo dove la democrazia digitale è strumento di coesione, dialogo e parità nelle decisioni, come seguito di un processo di alfabetizzazione digitale per tutti, com’è stato quello affidatole dalla sua nazione dopo il 2014.
Qual è dunque l'ambiente, fisico e relazionale, di apprendimento che andiamo a creare nel prossimo futuro per garantire un'effettiva uguaglianza tra chi studia e costituirà poi le città di domani? Non certo quello che gli ultimi decenni ci hanno lasciato, sia in termini tangibili che intangibili. Nelle sue 21 lessons for the 21st Century, Yuval Noah Harari già riassume questa impasse anacronistica:
“Non puoi imparare la resilienza leggendo un libro o ascoltando una lezione. Agli stessi insegnanti manca la flessibilità mentale che richiede il Ventunesimo Secolo, perché loro stessi sono il prodotto di un sistema educativo vecchio. (…) Gli insegnanti si sono autorizzati a infilare dati nella testa degli studenti incoraggiandoli a ‘pensare per sé’ (…) tanto anche se questa generazione non ce la fa a sintetizzare tutti quei dati in una storia del mondo coerente e sensata, ci sarà ancora molto tempo per costruire una buona sintesi in futuro. Quel tempo, adesso, è esaurito.”
Spazi materiali: dove studieremo?
Quali spazi rispondono allora ai nostri anni, attivamente intercettando e trasformando lo Zeitgeist? Il prototipo di scuola galleggiante di Kunlé Adeyemi già nel 2014 rispondeva alle disuguaglianze sociali, spaziali e ambientali di aree urbane in esplosione come quella di Lagos. Ora che, più di prima, le parole d'ordine in cima alla priority list diventano co-creazione, interdisciplinarità attiva e insegnata (in contrapposizione a specialismi e ageism ancora dominanti) o, a tutte le scale, approccio learner-first, si fa impellente la progettazione o ri-progettazione di spazi strutturati da principi differenti.
La piattaforma Non-Architecture, ad esempio, che si propone di reinventare il design degli spazi mettendone in questione le basi, ha lanciato un concorso per il 2019, Learning, che già invitava a proporre nuove forme di sede universitaria, dove “l’innovazione si esprime rafforzando non soltanto la relazione studente-insegnante, ma anche il potenziale di collaborazione, la motivazione reciproca tra coloro che stanno imparando, la transdisciplinarità e l’interdisciplinarità rivolta verso il mondo esterno”. In Europa come in Africa e Sudamerica, intanto, si ripensano gli spazi scolastici decostruendo la classe chiusa, aprendo all'ambiente circostante, dando priorità agli spazi di interazione meno rigidamente definiti.
Domusforum 2021, in programma a Milano il 24 novembre, arriva nel pieno dell'accelerazione di questo movimento evolutivo dalle numerose sfaccettature, portando queste domande aperte all'interno di un discorso che vuole trasversalmente coinvolgerci in un interrogativo più ampio sul futuro degli spazi della nostra vita.