Come si sono organizzate le scuole per fronteggiare la pandemia

Prima che il Dpcm chiudesse le superiori, abbiamo fotografato gli edifici scolastici di Milano, dove i presidi hanno organizzato gli spazi in modo flessibile e modulare, anticipando probabilmente la scuola che verrà.

“Questo è un luogo che nasce per la salute degli alunni”, racconta Francesco Muraro, preside del Trotter. A inizio del secolo scorso, qui c’era l’ippodromo. Poi, nel 1924, il sindaco di Milano Emilio Caldara acquista quest’area di 120mila metri quadri e prende così forma una scuola particolarissima, la Casa del Sole, pensata per i bambini malati, nella quale avrebbero trovato spazi salubri all’aria aperta, una piscina e prati dove fare bagni di sole. È questa la storia che Muraro racconta a Domus, mentre attraversiamo il parco a piedi: “È il mio modo per gestire questa scuola, camminando”, commenta lui. Oggi qui ci sono quasi 1350 alunni, di cui 280 delle medie e quasi 580 della primaria delle quali Muraro è preside. Ancora oggi questa è una scuola unica, un punto d’incontro tra l’avanzata della gentrificazione di Nolo, e via Padova, zona multietnica per antonomasia della città di Milano. Nel pomeriggio e nei weekend, il parco è aperto a tutti. Per il resto del del tempo, è una scuola.

Negli spazi occupati dalla piscina, a lungo abbandonati, è stato inaugurato a fine settembre un doppio campo sportivo multifunzionale, che spicca tra i colori del parco d’autunno con il suo colore azzurro. Quando arriviamo, c’è una classe delle elementari che sta facendo lezione nel campo. Presto se ne aggiungerà un’altra. “Più stanno all’aperto e meglio è”, dice Muraro, che ha fatto acquistare 90 set da campeggio Decathlon, per un totale di 360 sedute, affinché gli alunni possano fare lezione ovunque nel parco. Siamo a inizio ottobre e le scuole hanno appena riaperto. Il secondo lockdown, che nel giro di un mese colpirà tutta Milano, è un fantasma incredibilmente lontano in questo momento, c’è anzi ancora nell’aria un sottile ottimismo che noi italiani ci siamo trascinati dalle vacanze, durante le quali il Covid ha allentato la morsa. La sua estate il preside Muraro l’ha passata soprattutto a fare “l’architetto, anzi il geometra”, come dice lui, che porta la piantina della scuola sempre con sé, nello zaino. Perché dietro alla riapertura delle scuole dopo l’estate c’è stato soprattutto un lavoro enorme da parte di chi le amministra, che si è districato tra le normative con ore di studio, lunghe telefonate e il confronto continuo con i colleghi, sui gruppi whatsapp dei presidi.

Nell’ex convitto recentemente ritrutturato, dove un tempo venivano ricoverati i bambini gracili, trovano posto le classi delle medie. Il nastro a terra indica dove devono essere posizionati i banchi, che sono distanziati uno dall’altro in modo che tra un alunno e l’altro ci sia almeno un metro. Gli arredi sono tutti nuovissimi, con soluzioni sperimentali come gli armadietti mobili e una biblioteca a rotelle che si sposta negli spazi diffusi, tutti fermi a causa delle nuove regole. Come del resto sono rimaste chiuse e inutilizzate le aule laboratorio. “Tutto questo ovviamente viene fatto per ridurre il rischio, è impossibile che il virus non circoli”, mi spiega Muraro, di nuovo all’aperto, mentre ci spostiamo verso un padiglione dove ci sono alcune classi elementari. Intanto mi dettaglia le procedure di quarantena a macchia di leopardo che entrano in vigore se un alunno risulta contagiato. In classe i bambini sono tutti distanziati, tutti con la mascherina. All’ingresso si trova un flacone di disinfettante per le mani. Scivoliamo tra varie aule delle elementari più provate dal tempo rispetto a quelle delle medie, interni colorati e umbratili che sembrano fondersi con la natura subito fuori. Qui i banchi sono diversi, hanno la forma dello spicchio di un anello. Erano stati pensati per essere disposti in cerchio e favorire la didattica non frontale. Ma l’unica soluzione fattibile, per rispettare i nuovi regolamenti sulle distanze, è stato disporli a emicicli, distanziandoli leggermente uno dall’altro.

In classe i bambini sono tutti distanziati, tutti con la mascherina. All’ingresso si trova un flacone di disinfettante per le mani. Scivoliamo tra varie aule delle elementari più provate dal tempo rispetto a quelle delle medie, interni colorati e umbratili che sembrano fondersi con la natura subito fuori. Qui i banchi sono diversi, hanno la forma dello spicchio di un anello. Erano stati pensati per essere disposti in cerchio e favorire la didattica non frontale. Ma l’unica soluzione fattibile, per rispettare i nuovi regolamenti sulle distanze, è stato disporli a emicicli, distanziandoli leggermente uno dall’altro.

Francesco Muraro, preside del Trotter

La scuola, dall’esterno, tendiamo a pensarla sclerotizzata, vagamente fuori dal tempo, conservativa, perennemente uguale a se stessa. Ma di fronte al Covid si è adattata con grande spirito di sopravvivenza. Quello di una versatile modularità è anche il primo comandamento nel design di nuovi spazi scolastici secondo Silvia Minutolo e Marco Giai Via di Archisbang Associati, lo studio che ha recentemente progettato la ristrutturazione della scuola media Giovanni Pascoli di Torino, un edificio ottocentesco i cui spazi sono stati completamente ripensati, scavalcando in pieno il preconcetto per cui l’attività didattica debba svolgersi solo nelle aule. “Nelle linee guida delle scuole innovative si immagina la didattica dappertutto”, spiega Archisbang. Uno spostamento di paradigma pre-Covid che oggi aggiunge il vantaggio di una migliore gestione del distanziamento. Lo spiegano bene i numeri: se in una aula mediamente dimensionata ogni singolo alunno ha a sua disposizione un minimo di 1,8 metri quadri, per essere “socialmente distanziato” la superficie di questa sorta di perimetro personale si deve alzare a più di tre metri quadri e mezzo a testa. E quindi un’aula dovrebbe essere grande il doppio, o la classe dimezzata. Usando anche gli altri spazi dell’edificio scolastico, corridoi prima di tutto, com’è stato fatto al Pascoli, con l’introduzione di corridoi abitati, dotati di tavoli e sedute, questo problema non si pone. La scuola innovativa è una scuola a prova di emergenza sanitaria.

Peccato che il Pascoli sia una clamorosa eccezione. In Italia la maggior parte degli edifici scolastici è stata costruita prima del 1975 e quelli nuovi e innovativi si contano sulla punta delle dita. È però sorprendente come alcuni dei concetti che si vedono in queste nuove scuole siano stati adottati dai presidi per fronteggiare l’emergenza causata dalla pandemia, adattandoli agli spazi che trovavano a disposizione. Prendo appuntamento con Giovanna Mezzatesta, preside del liceo scientifico intitolato all’architetto milanese Piero Bottoni, a fine ottobre, quando l’insegnamento è ancora in presenza. Quello del Bottoni è un grande e vecchio edificio scolastico in via MacMahon, a ridosso del ponte della Ghisolfa. Ne ricorda infiniti altri: i larghi corridoi, quella precisa grandezza delle aule, la rampa di scale che ogni giorno porta gli 800 alunni in classe, le pavimentazioni con decori vecchio stile che oggi potrebbero stare bene nelle case degli influencer più raffinati e un filo hipster. È pomeriggio, la scuola è deserta, si sente l’eco dei nostri passi. “Per cominciare, abbiamo spostato le classi più grandi in aule più grandi”, spiega la preside. Per esempio nell’aula intitolata al professor Meda, un insegnante beniamino degli alunni, scomparso improvvisamente un paio di anni fa. Il laboratorio di disegno che gli è stato dedicato ha le pareti dipinte di blu, perché “il blu è un colore caldo” era una delle sue citazioni preferite. Oggi l’aula ospita una classe intera.

Come nella scuola innovativa reimmaginata da Archisbang, anche qui al Bottoni il concetto di classe, se non superato, è stato ridefinito, reimmaginato e reso fluido. Per evitare l’insegnamento a distanza, sono state create delle sezioni “sdoppiate”, ACE e BDF, affidate all’insegnamento dei volontari, che raccolgono 5 studenti a turno da ciascuna delle prime. Una soluzione brillante, basata sulla logica, che comunque va governata nella didattica. Il caso dello studente che non faceva i compiti con la scusa dell’essere in una classe sdoppiata, spiega la preside, c’è stato.

Giovanna Mezzatesta ricorda il fatalismo e poi la crescente paura con cui gli alunni hanno accolto la pandemia e tutto quello che ne è seguito da questa primavera. E come dopo l’estate siano tornati forse un po’ troppo spavaldi. La preside sottolinea più volte che la malattia non è a scuola, la malattia è fuori. Che i casi che ci sono stati al Bottoni venivano soprattutto da ragazzi che fanno sport di squadra e di contatto. Ogni mattina, a tutti gli studenti veniva controllata la febbre prima dell’ingresso. 

Durante il nostro giro nella scuola, la preside ci mostra il ramo cieco di un corridoio che è stato allestito a classe, e un’aula con banchi piccoli, pagati 35 euro ciascuno, “una soluzione semplice ed economica per favorire il distanziamento”, e in un seminterrato le tristemente famose – e costosissime – sedie mobili introdotte dal ministero dell’Istruzione per fronteggiare il virus. Ovviamente, tutto questo immane sforzo di reimmaginare l’insegnamento in un contesto di maggior sicurezza e distanziamento non è servito a molto, poiché con il Dpcm di inizio novembre la scuola in presenza è stato vietata per le superiori. “Abbiamo lavorato per la riapertura e stiamo subendo la chiusura”, è il commento lapidario che Giovanna Mezzatesta mi inoltra via whatsapp.

Giovanna Mezzatesta, preside del Bottoni

Si fa veloce a dire insegnamento a distanza. In realtà è tutt’altro che semplice. Da un punto di vista didattico, perché gli insegnanti devono reinventare modalità e tempistiche e approcci. Dal punto di vista psicologico, gli alunni si trovano estratti dalla rete sociale della classe e devono rimodulare la loro presenza davanti a uno schermo, anziché in aula. E c’è un problema di infrastrutture: non è detto che tutti i docenti abbiano la possibilità di fare lezione da casa, ma non è neanche scontato che le vecchie scuole italiane siano sempre allacciate a una rete veloce; o che ci siano aule predisposte per fare lezione a distanza. Un problema che si allarga agli alunni: la scuola via smartphone o laptop costa svariati giga di connessioni, e non è detto che tutti possano permetterseli. Ma al momento, un insegnamento misto, o l’insegnamento da remoto, sembrano le uniche vie praticabili: bisognerà che la scuola sia resiliente e si adatti. L’ha già fatto, dovrà farlo ancora meglio.

Intanto, però, si intravede all’orizzonte l’idea di una scuola diversa. La pandemia forse ha gettato le basi di qualcosa di nuovo. “Oggi tutti sono stati costretti a vivere questa scuola innovativa”, commenta Archisbang. Ma dobbiamo anche augurarci, concludendo, “che arrivi anche alle politiche con la giusta visione temporale e non con la solita stremante gestione dell’urgenza, la stessa che ci ha portato a collezionare milioni di pezzi di plexiglass che presto dovremo probabilmente gettare, producendo un enorme danno ecologico”.

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