Il dialogo tra le discipline per riflettere sul futuro delle città

Nell'epoca della complessità, la "comunità del progetto" deve tornare a coltivare quei saperi ibridi che avevano reso i Michelangelo e i Palladio dei grandi interpreti del proprio tempo.

Al tempo della complessità riflettere sul futuro urbano significa porre l’architettura delle città in dialogo con le hard sciences da un lato e i saperi umanistici dall’altro.
Soltanto il confronto costante con l’economia, le neuroscienze e le scienze cognitive, l’antropologia, la biologia, l’estetica, l’informatica e la robotica può permettere all’architettura di uscire dai vincoli dello specialismo fine a sé stesso e diventare la matrice di una visione prima, e di una traiettoria poi, per ridefinire non solo e non tanto gli spazi ma soprattutto i modi della vita associata.

C'è di più. Questo passaggio da una visione verticale ed elitista a una orizzontale e aperta della disciplina permette anche di ridefinire la tutela del pianeta nell’ordine della responsabilità umana. E di elaborare, dunque, una nuova etica e una nuova pragmatica per cui l’unico futuro praticabile non passa soltanto dal rapporto costruttivo tra gli individui ma anche tra la nostra specie e la biosfera della quale essa è parte.           

È importante, quindi, che “la comunità del progetto” torni a coltivare quelle competenze ibride e multidisciplinari che hanno nei secoli hanno creato i Michelangelo e i Palladio come massimi interpreti del loro tempo. E, nella contemporaneità, gli esempi che su Domus cerchiamo di raccontare ogni mese da quasi cent'anni.

Le sfide della società e del clima devono essere affrontate da architetti umanisti, figure in grado cioè di riflettere e rappresentare lo Zeitgeist, esercitando costantemente una critica intorno alle contraddizioni del presente, e indicando contemporaneamente anche la traccia di un futuro possibile.

La diffusione capillare di Internet ha portato allo sviluppo di legami sociali deboli, utili per scambiare informazioni e opportunità a basso costo, ma con l’effetto collaterale di una rapida individualizzazione e disimpegno civico.
La pervasività dell’information technology ha cambiato radicalmente la nostra società e le nostre abitudini e ha iniziato a incidere sostanzialmente sui nostri spazi architettonici. E quindi sulla domanda su come usare questi spazi per non farli diventare carcasse urbane o falansteri del nulla. In questo scenario, l’architettura può rappresentare la parte mancante, fungendo da catalizzatore di nuovi legami forti contro l’impoverimento sociale.          

La vita associata è possibile soltanto se c’è un progetto politico, nell’accezione originale della parola che designa ciò che attiene alla dimensione della vita comune, quindi allo Stato e al cittadino.

L’architettura non può e non deve essere soltanto ricerca estetica formale, bensì cultura del bene comune. Deve cioè rappresentare e rispondere alle inclinazioni e alle ambizioni di una società, materializzandole nello spazio costruito.
Il brusco risveglio dovuto alla pandemia, ma più in generale la profondissima crisi socioeconomica che perdura da oltre un decennio, obbligano a mettere in discussione alcuni paradigmi che parevano consolidati: mobilità, sostenibilità, emissioni, inclusione, diversità, smart working… Non era mai successo negli ultimi secoli che, in un tempo così breve, la realtà ci mettesse di fronte a interrogativi così numerosi e complessi.

A Domus siamo convinti che troveremo le risposte soltanto se saremo in grado, prima di tutto, di ripensare lo spazio nel senso più ampio del termine e per farlo abbiamo bisogno di pensare e realizzare un’architettura di qualità. Che coltivi il bello al pari dell’utile, fedele dell’insegnamento di Roger Scruton che si costruisce con l’obiettivo della sola utilità, molto presto tutto quello che costruiamo sarà inutile.

Un’architettura che sia figlia dell’attitudine di interrogare e interrogarsi costantemente al fine di tracciare una mappa di senso verso quello che il filosofo Silvano Petrosino chiama in maniera appropriata non già futuro bensì “avvenire”. Un termine che porta con sé l’idea di fluire e nega quella visione deterministica del domani quale mera proiezione dell’oggi. Un passo necessario non solo nella semantica ma anche nell’azione concreta.

Per questo motivo presentiamo domusforum 2021, che giunto alla quarta edizione continua a indagare la realtà con gli strumenti tradizionali della nostra cultura – la critica, i protagonisti, la multidisciplinarietà – per capire come vivremo, come lavoreremo, come produrremo, come studieremo, come ci cureremo.
In una parola quale sarà il nostro futuro che noi per primi abbiamo la possibilità, e la responsabilità, di costruire.
Nell’attesa di vedervi il 24 Novembre, seguite i nostri approfondimenti su domusfroum 2021

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