Bellezza, valore e sopravvivenza

Incontrato al recente convegno Urban Age ospitato alla Biennale Architettura 2016, Kunlé Adeyemi parla del valore della bellezza come strategia di sopravvivenza e dell’importanza delle comunità come Makoko.

Kunlé Adeyemi at the Urban Age conference. Photo Catarina Heeckt
Nell’esperienza del suo studio a Lagos, in Nigeria, e ad Amsterdam, in Olanda, Kunlé Adeyemi usa il progetto d’architettura per affrontare problemi nati dall’urbanizzazione, creando identità per garantire la sopravvivenza e favorire lo sviluppo. 
Un progetto, la Makoko Floating School – spazio pubblico per la comunità di Makoko costruito a Lagos sopra una laguna – è stato ricostruito per la Biennale Architettura 2016. Intervento controcorrente di fronte alla richiesta di eliminare la comunità, usa materiali locali per garantire sostenibilità e autogestione. Anche se il collasso finale della scuola ha provocato le critiche di qualche organo di stampa relativamente al suo valore, la scuola si è guadagnata un indubbio merito formativo e l’attenzione della comunità, e ha raggiunto l’obiettivo di garantire la propria sopravvivenza nel medio termine. Raggiungendo Adeyemi in occasione del recente convegno Urban Age ospitato dalla Biennale di Venezia, organizzato dalla London School of Economics e dalla Alfred Herrhausen Gesellschaft della Deutsche Bank, gli abbiamo chiesto che cosa abbia imparato, quale sia il valore della bellezza come strategia di sopravvivenza e quale sia la disponibilità di risorse delle comunità come Makoko.
Kunlé Adeyemi at the Urban Age conference. Photo Catarina Heeckt
In apertura e qui sopra: Kunlé Adeyemi alla conferenza Urban Age. Photo Catarina Heeckt

Philippa Nicole Barr: I poveri hanno di diritto alla bellezza?

Kunlé Adeyemi: Magari non è il loro bisogno più urgente, ma è comunque qualcosa che aggiunge un valore incredibile alla loro vita. Il punto è che, se si pensa a come accrescere il valore di un ambiente privo di possibilità di iniziativa, la bellezza porta con sé un’identità e accresce l’autostima. Credo che queste cose siano importanti quanto l’energia, l’acqua, l’elettricità, non da un punto di vista puramente estetico, ma da un punto di vista emotivo.

Philippa Nicole Barr: Perché nei progetti destinati ai poveri altre esigenze vengono ritenute più importanti della bellezza?

Kunlé Adeyemi:  Credo che accada perché non si tratta di criteri fondamentali. La bellezza e la valutazione estetica non sono importanti quanto la soluzione dei problemi di necessità fondamentale. Secondo me la bellezza è davvero questione di valore e di identità. Ma se c’è qualcosa, un oggetto o una sensazione visiva oppure un’immagine, che aggiunge valore o conferisce valore a una comunità, allora credo che sia vergognoso che chi cerca di dar vita a questi progetti non tratti questi aspetti con la stessa considerazione con cui pensa semplicemente a risolvere quei bisogni fondamentali. Citerò l’esempio della Makoko [Floating School]. Uno dei problemi principali da affrontare in quel caso è il fatto che il governo afferma chiaro e tondo che la comunità è bruttissima.

Kunlé Adeyemi
Kunlé Adeyemi è stato premiato con il Leone d'Argento per la sua Makoko Floating School alla Biennale Architettura 2016. Photo Jacopo Salvi. Courtesy of La Biennale di Venezia

Philippa Nicole Barr: Ma davvero?

Kunlé Adeyemi: Certo, il governo dice che il posto non è bello e che la città sta crescendo e ha bisogno di essere bella. Se tra i loro problemi c’è la considerazione della loro identità da parte dello Stato e se la comunità ha bisogno di continuare ad avere la possibilità di autopromuoversi, allora anche i singoli devono prendere la cosa seriamente.

Philippa Nicole Barr: Parlando della scuola di Makoko hai detto che la bellezza non era un obiettivo concreto del vostro progetto, ma io volevo chiederti se quando hai iniziato a occupartene avevi un’immagine visiva di quel che volevi, oppure se non hai fatto che rispondere agli esiti delle consultazioni che hai messo in pratica.

Kunlé Adeyemi: Non siamo partiti con l’intenzione di fare una cosa bella. Credo fosse ben chiaro che dovevamo realizzare qualcosa che avesse un’incidenza, un’incidenza per catalizzare il cambiamento, per stimolare e generare interesse, che fosse qualcosa che si inserisse nell’ambiente circostante ma allo stesso tempo fosse molto diversa, qualcosa che si facesse notare. Io ho una collezione di bambole di quelle che la gente considera bruttissime.

Kunlé Adeyemi, scuola galleggiante alla Biennale Architettura 2016. Photo Jacopo Salvi. Courtesy of La Biennale di Venezia

Philippa Nicole Barr: Un hobby inconsueto…

Kunlé Adeyemi: Sì, un piccolo hobby. Le colleziono da tutto il mondo, pupazzetti, cose così. Perché è affascinante capire che cosa una certa cultura considera brutto perché incarna concretamente certe sue paure…

Philippa Nicole Barr: Qualcosa da cui sono minacciati?

Kunlé Adeyemi:  Minacce, e cose concrete che si trasformano in queste miniature, e sono cose decisamente interessanti da vedere. Ma se guardo la mia collezione capisco che questi oggetti in realtà sono belli. Viene fuori che è una collezione di cose che, anche se ritraggono qualcosa di veramente brutto, in realtà sono belle perché sono sincere, sono autentiche. E credo che per me la bellezza sia tale indipendentemente da quanto visivamente fastidiosa possa sembrare.

Philippa Nicole Barr: Pensi che le comunità con le quali lavori abbiano una loro idea di che cosa siano il bello e il brutto?

Kunlé Adeyemi: Sono sicuro di sì e non vado da loro a imporgli un criterio di giudizio. Ci vado prima di tutto per capire. Ho passato un anno e mezzo a fare ricerche, a imparare che cosa fanno, come usano i materiali, perché fanno quel che fanno, perché lavorano con mezzi estremamente ridotti, nella scarsità di risorse. Perfino la loro percezione della bellezza e della perfezione è totalmente diversa rispetto a quel che pensiamo noi. E così tra noi e loro si instaura una trattativa per capire dove trovare il punto di equilibrio, dove l’efficienza si coniuga con il miglioramento formale. E bisogna imparare dalle persone che si hanno di fronte quali siano i loro sistemi di valori, che cosa considerino bello:  insomma la loro identità.

Kunlé Adeyemi
Kunlé Adeyemi, scuola galleggiante alla Biennale Architettura 2016. Photo Jacopo Salvi. Courtesy of La Biennale di Venezia

Philippa Nicole Barr: È difficile comunicare il valore di un progetto effimero?

Kunlé Adeyemi: Il progetto è stato un catalizzatore temporaneo. Non doveva essere necessariamente temporaneo, avrebbe potuto essere più permanente, relativamente a funzioni e manutenzione. Con la manutenzione avrebbe potuto durare di più. Il suo carattere effimero era lo scopo per cui era stato creato, il limite entro cui doveva rispondere allo scopo.

Philippa Nicole Barr: Non sei stato un po’ deluso dal fatto che non sia stato conservato più a lungo?

Kunlé Adeyemi: Delusi lo siamo stati. Ma bisogna capire che questa struttura è stata costruita in un periodo in cui la comunità era in corso di dispersione, e si trattava di un intervento per interrompere un processo di invasione della vita di quelle persone. Era una cosa destinata a fermare le cose e a dimostrare al governo che quella gente poteva vivere anche in modo diverso, e che le popolazioni che vivono sull’acqua possono vivere bene. Non è perfetta, ma è una cosa che possiamo sviluppare a partire dal loro modo di vivere, ed è una cosa che si può migliorare.

Kunlé Adeyemi at the Urban Age conference
Kunlé Adeyemi alla conferenza Urban Age. Photo Catarina Heeckt

Philippa Nicole Barr: Era la risposta a una contingenza politica?

Kunlé Adeyemi: Sì, ed era proprio questo il fatto fondamentale. Era proprio la capacità di spezzare questo sistema che li stava cancellando, in un momento in cui lo Stato dichiarava, per quello di cui stiamo parlando, che vivere sull’acqua era contro la legge. È ancora un successo, riguardo alla prosecuzione di quel discorso. La prova che ne abbiamo alla Biennale di Venezia è già il secondo esemplare, lo abbiamo migliorato, lo abbiamo industrializzato. È stato realizzato in dieci giorni, montato molto rapidamente in modo da poter trattare questi problemi dell’urbanizzazione, e sarà ancora migliorato: è così che funziona l’innovazione. Se si sbaglia ci si rialza e si continua.

Philippa Nicole Barr: Riesci a pensare che una popolazione occidentale possa volere una di queste strutture effimere galleggianti?

Kunlé Adeyemi: Dal punto di vista ideologico speriamo che quello che stiamo facendo sia replicabile, non necessariamente nella forma, ma nel modo di pensare, nel modo di organizzare le risorse, di pensare a come affrontare i problemi sociali, economici e politici per rispondere alle sfide e alle occasioni dell’ambiente costruito. Se m’incaricano di risolvere un problema ad Amsterdam, ho bisogno di sapere in che cosa consistano quei problemi. Perciò ho bisogno di capire quei problemi, che sono decisamente particolari e decisamente specifici in quel contesto. Il nostro studio riceve incarichi di lavoro in comunità molto povere ma anche in comunità ricche: accrescere il valore al polo più basso e ridurre lo spreco al polo più alto per trovare un punto mediano, per colmare il dislivello.

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