Audi A2, un’auto da designer per il ventunesimo secolo

Futuribile, anti-machista, Bauhaus: 25 anni fa entrava in produzione la piccola Audi, un manifesto per un design del domani. Tra Ross Lovegrove, Matali Crasset e Andrea Morganti, ce l’hanno raccontata i designer che ancora la amano.

Siamo alla fine degli anni ’90 del secolo scorso. All’orizzonte si affacciano nuove questioni di visione per il mondo dell’auto, che fino a quegli anni era ancora legato a tre valori principali: lo status che una vettura conferiva, la capacità di trasporto e le prestazioni.

A metterli in discussione arrivavano il basso impatto ambientale, i consumi ridotti, l’efficienza costruttiva e l’alta densità di trasporto delle persone. In una parola, oggi diremmo sostenibilità.

Con questi intenti, gli ingegneri Audi si impegnarono in un progetto che trasformava radicalmente il modo di pensare e realizzare le loro auto. Una riconversione industriale che si dotava di centri ricerca sui materiali, catene di produzione robotiche ad alte prestazioni e gallerie del vento. Tutti strumenti che fin dai primi passi diventavano mezzi di coprogettazione al fianco dei designer.

Una visione in anticipo sui tempi

Nel 1997 esce un primo concept, denominato AL2 (e la sua variante open end), che delineava una nuova visione di mobilità. Ben sotto i 4 metri (3,85 m), questo veicolo si proponeva come auto unica per le esigenze familiari: un mini-monovolume in grado di ospitare 4+1 passeggeri con comfort totale e valori altissimi in termini di abitabilità, guidabilità, consumi, efficienza costruttiva e facilità di smaltimento.

Il vero impianto progettuale nasce dall’idea di realizzare una vettura con telaio autoportante interamente in alluminio, come nessuna casa automobilistica aveva mai fatto prima per il mass market. Da qui il nome stesso della vettura, un richiamo diretto alla tavola degli elementi chimici.

Era un veicolo leggerissimo, intorno agli 800 kg, con consumi record: circa 25 km/l con il motore a benzina e fin quasi 30 km/l con il piccolo tre cilindri diesel automatico. Il tutto grazie anche alla nuova galleria del vento Audi, che permise di raggiungere un coefficiente aerodinamico di 0,24, impensabile per l’epoca e ancora oggi raro.

Luglio del 2002: lavoravo con Future Systems e ricordo che vidi dalla finestra dello studio arrivare garbatamente nel nostro parcheggio una A2. Impossibile non notarla, sembrava una micro-astronave argentea su ruote.

Andrea Morgante

All’interno, una disposizione intelligente degli spazi aumentava l’abitabilità. Il pianale scavato – pensato in origine per ospitare batterie in una versione elettrica mai realizzata – regalava 20 cm in più per distendere le gambe, abbassando al tempo stesso il punto di seduta.

Un tetto interamente in vetro, senza montanti trasversali, correva dal parabrezza al portellone del bagagliaio compreso, apribile completamente, garantendo una luminosità totale all’abitacolo.

Molte soluzioni ricostruivano l’esperienza d’uso automobilistica in maniera inedita: il cofano motore, non apribile quotidianamente, era ispezionabile solo attraverso una piccola griglia per il rabbocco dei liquidi, lasciando intuire un’affidabilità costruttiva estrema. I sedili posteriori, rimovibili con una sola mano tramite una maniglia e trasformabili in due piccole valigie, aumentavano la capacità di carico. Infine, i pozzetti sotto i piedi dei passeggeri permettevano di riporre oggetti, mantenendo l’auto sempre in ordine.

È con l’arrivo di Luc Donckerwolke - padre anche della Lamborghini Diablo e Mucielago, dell’Audi TT e di altre icone di quegli anni – che nel 2000 l’auto raggiunge la produzione in serie, con un ridisegno di estrema pulizia che la fa atterrare in un mercato automobilistico rimasto scioccato.

Ne esce una autovettura dalle line estreme, futuristiche potremmo dire, senza il visivo estetico “car design” ma forse più vicine alle formalità di un grande progetto di product design; superfici con soluzione di continuità, minimalismo estremo con una sinuosità da goccia che fende l’aria.

Con un messaggio roboante, che prometteva di andare da Monaco a Milano con un solo pieno, la vita non facile della A2 ebbe inizio. I costi elevati la resero un prodotto elitario. Ma proprio in questa scelta comunicativa, che la definiva implicitamente una “designer car”, sta la sua unicità: Audi aveva capito che la forza del progetto non era solo nelle prestazioni, ma nei dettagli, nelle soluzioni tecniche e formali.

Dopo tanti anni e con il senno di poi possiamo dire che l’ A2 sembra essere nata troppo presto e ,con forse troppa presunzione,voleva darci una lezione di sostenibilità e efficienza alla quale non eravamo pronti.

Un’auto da designer, secondo i designer

Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni designer, possessori o estimatori della A2, per raccontarcela in prima persona e capirla meglio a distanza di 25 anni.

Matali Crasset, pluripremiata e riconosciuta a livello internazionale, formatasi tra Parigi e Milano proprio in quegli anni, possiede ancora una Audi A2: “La mia prima auto scelta è stata una Twingo” ci racconta. Alla nascita del mio secondo figlio, la Twingo con i seggiolini per bambini diventava stretta e poco pratica, poiché era una due porte. I miei amici Patrick Elouarghi e Philippe Chapelet, fondatori dell’HI Hôtel e con i quali ho realizzato in seguito numerosi progetti, si separavano dalla loro Audi A2, e noi l’abbiamo acquistata di seconda mano nel 2003. È ancora la mia auto, da vent’anni”.

La forma compatta dell’Audi a2, un design non statutario, che non afferma i codici virilisti e maschilisti del mondo automobilistico sono gli aspetti formali e progettuali che trovo più interessanti.

Matali Crasset

Ci si può interrogare se il suo insuccesso commerciale riveli piuttosto l’arcaicità del mondo dell’automobile, si interroga Crasset, perché “è innanzitutto un’auto leggera, non tanto quanto una 2CV o una Renault 4; l’uso dell’alluminio ha permesso di ottenere un veicolo di meno di 900 kg. Questo modo di pensare un’automobile contrasta con la moda dei SUV e con ‘l’autobesità’ dei veicoli attuali. La forma compatta dell’auto, un design non statutario, che non afferma i codici virilisti e maschilisti del mondo automobilistico sono gli aspetti formali e progettuali che trovo più interessanti”.

Per lei può essere il simbolo di un’epoca: “Senza esagerare, posso solo dire che è un’auto da cui faccio fatica a separarmi. Il design attuale dei veicoli non mi interessa: le automobili sono troppo grandi, pesanti, alte, ‘statutarie’, piene di gadget, e stanno diventando oggetti sempre più pericolosi per pedoni e ciclisti. Abbiamo bisogno di oggetti leggeri, durevoli, sostenibili, agili. Si può dire che il suo più grande pregio sta proprio in queste caratteristiche ormai sparite dal mercato automobilistico”.

Anche l’architetto e designer Andrea Morgante, noto per progetti come la sede del Museo Enzo Ferrari, ci racconta il suo incontro con questa vettura: “Luglio del 2002: lavoravo con Future Systems e ricordo che vidi dalla finestra dello studio arrivare garbatamente nel nostro parcheggio una A2. Impossibile non notarla, sembrava una micro-astronave argentea su ruote. Alla guida Ross Lovegrove, che stava dando un passaggio ad una giornalista giapponese venuta ad intervistare Jan Kaplicky”.

Morgante ha poi lasciato Future Systems dopo otto anni per collaborare con Lovegrove. “Nella sua leggendaria casa-studio in Notting Hill”, ci racconta, “Ross era risucito a ricavare una nicchia ‘sartoriale’ per poter parcheggiare la sua A2 all'interno, separata da una larga vetrata: era perennemente in esposizione, a fianco dei suoi prototipi; in un certo senso era volutamente parte della collezione degli oggetti straordinari esposti nel suo atelier. Ross ha sempre inseguito l’efficienza, la leggerezza ed il linguaggio organico plasmato dalla tecnologia. L'A2, essendo costruita interamente in alluminio, era in un certo senso la manifestazione del suo pensiero in scala automotive. Quando Ross passa nel mio studio, sempre a Notting Hill, si parla sempre delle nostre A2”. 

Una complessità tecnologica oggi impensabile per una vettura di tali dimensioni. Non ultima, poi l'incredibile flessibità e modularità degli interni, che permette numerose configurazioni. Sarebbe piaciuta molto anche a Joe Colombo.

Andrea Morgante

È proprio una questione di definizione, infatti quando gli chiediamo cosa lo appassioni di questo oggetto spesso definito controverso, risponde “Oggetto, esatto! Un oggetto di design prima che ancora mezzo di trasporto”. La definisce una storia d'amore con l’alluminio e la leggerezza: “Il mio primo oggetto di design che realizzai fu una poltrona in alluminio. E ancora il Museo Enzo Ferrari a Modena, dove realizzammo una copertura tridimensionale di 3,500 metri quadri in alluminio. Forse era scritto nel destino. E poi la sostenibilità e l'efficienza, qualità care a noi architetti: dopo 25 anni dalla sua uscita l'A2 resta ancora un'automobile inspiegabilmente contemporanea nei consumi, nel design e nel coefficiente aerodinamico. Senza dimenticare che è al 95% riciclabile”.
Ma forse ad affascinarlo ancora di più, ci dice, “è l'impostazione semiotica-estetica che esula dalla pressione di plasmare ogni automobile secondo stilemi macho-aggressivi, preferendo un linguaggio razionalista, placato, dove la forma segue la funzione. Motivo per cui molti hanno collegato il design della A2 alla Bauhaus”.

Riprende Morgante: “La bellezza è spesso nascosta e va cercata sotto la superficie: sollevando la tappezzeria sul pianale interno si scopre la raffinatezza dei sottili pannelli stampati in alluminio. Una razionalità e compostezza tecnologica che rimanda più a Dieter Rams o alla costruzione aeronautica. La mia A2 presenta anche l'Open Sky System, ovvero il tetto panoramico in pannelli di vetro completamente apribili, che donano all'interno una luminosità quasi architettonica. Una complessità tecnologica oggi impensabile per una vettura di tali dimensioni. Non ultima, poi l'incredibile flessibità e modularità degli interni, che permette numerose configurazioni. Sarebbe piaciuta molto anche a Joe Colombo”.

Immagine di apertura: ©Audi MediaCenter 

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