Bracciodiferro, la prima volta radical del design italiano

All’inizio degli anni Settanta un progetto sperimentale di Cassina sovverte i canoni del design e anticipa Alchimia e Memphis, coinvolgendo nomi come Gaetano Pesce e Alessandro Mendini.

Primi anni Settanta. La crisi petrolifera getta un’ombra scura sull’ottimismo e la fiducia nel futuro dai tardi anni Sessanta, mentre la radicalizzazione dello scontro politico lascia intravvedere i prodromi di quelli che saranno gli anni di piombo. Bracciodiferro nasce in questo clima.

Nel 1972, all’interno del Centro Ricerca e Sviluppo di Cassina, Gaetano Pesce coinvolge Francesco Binfaré, Alessandro Mendini e l’architetto navale Aldo Cichero in un progetto destinato a passare alla storia come la prima esperienza radical del design italiano. Sfidando le filosofie produttive e i metodi commerciali tradizionali, oltre che il feticcio della produzione in serie, Pesce e i suoi sodali aprono la strada all’art design, e si rivolgono alle gallerie d’arte e ai collezionisti con pezzi unici o a tiratura limitata, dalla forte vocazione ironica quando non addirittura sovversiva, con una dichiarata volontà di far dialogare gli oggetti e gli artefatti da loro progettati con i fantasmi, i sogni e i bisogni della società contemporanea.

Prima di Alchimia e di Memphis, Bracciodiferro sfida idee radicate e luoghi comuni per traghettare il design fuori dai dogmi funzionalisti in cui era vissuto e cresciuto nel decennio precedente. Già il nome scelto, del resto, è più che indicativo: Bracciodiferro nasce con una forte vocazione combattiva, in dichiarata opposizione allo status quo della società industriale: se il design aveva sempre perseguito l’ordine, la misura, l’utilità e la razionalità, Bracciodiferro va nella direzione opposta, rompe l’armonia compositiva, altera le proporzioni, scardina i modelli acquisiti, affranca gli arredi e gli oggetti dall’obbligo di essere rassicuranti, introduce nel progetto l’innovazione dell’ironia.

  

Manifesto iconico di questo laboratorio creativo è senz’altro la lampada Moloch (1972): sovradimensionando una lampada norvegese della Luxo, realizzata originariamente nella seconda metà degli anni Trenta, Gaetano Pesce cerca di evidenziare il senso di spiazzamento derivato dalla decontestualizzazione di un oggetto di uso comune, ma con il suo uso sorprendente del fuori scala trasforma un apparecchio illuminante in una sorta di scultura totemica che prende il nome dal dio sanguinario presente nelle antiche culture orientali.

Al sangue e all’antichità rinviano anche le sedie e i tavoli del progetto Golgotha (1972), che evoca la drammaticità dell’esistenza con un palese riferimento ai testi biblici e profetici. Qui Pesce unisce la sperimentazione materica e la provocazione intellettuale per realizzare sedute che sembrano conservare l’impronta del corpo umano che vi si è adagiato, un po’ come il lenzuolo che si dice abbia avvolto il corpo di Cristo dopo la deposizione dalla Croce, mentre le scrivanie che accompagnano le sedute sono realizzate con mattoni di vetro legati assieme manualmente a mezzo di resina in poliestere rossa e lana di vetro.

Per diretta ammissione di Pesce, è palese e voluto il riferimento alla passione di Cristo e all’Ultima Cena, quasi a voler ricordare il valore sacramentale che gli oggetti avevano nella società tradizionale, dove ogni tavola era in definitiva un altare e ogni pasto un’attualizzazione dell’Eucaristia e un’apertura sul trascendente. Ma un progetto simile non va letto come un gratuito debordare della forma rispetto alla funzione. C’è molto di più, e Pesce lo ammette apertamente. C’è la volontà di far dialogare criticamente gli oggetti con lo spazio che li contiene. E di caricarli delle emozioni inconsce che abitano lo spirito del tempo: l’insicurezza, la paura, l’isolamento, l’angoscia.

Sedia e tavolo Golgotha, Gaetano Pesce, Bracciodiferro. Courtesy Cassina Historical Archives
Sedia e tavolo Golgotha, Gaetano Pesce, Bracciodiferro. Courtesy Cassina Historical Archives

Non tutti i designer coinvolti nell’avventura di Bracciodiferro seguono Pesce nella sua sensorialità accesa e nella sua visionarietà quasi apocalittica. Mendini, ad esempio, lavora di più su una proposta di elaborazione scenica dell’arredo, parla di cose non-cose, di sub-oggetti, di mobili più teatrali che funzionali. E realizza così esperimenti progettuali e creativi come il tavolo Voragine (che ha una crepa nel mezzo), la lampada Letargo (che viene presentata immersa in un mare di fango) o il Monumentino da casa (una sedia posta in cima a una scala in modo da acquisire un’immediata funzione monumentale). Tutti oggetti sottratti alle esigenze funzionali dell’arredamento. In alcuni casi pensati perfino per essere messi al rogo (come le sedie Lassù e Monumentino da casa di Mendini).

Troppo ardito. Troppo sperimentale per durare. E infatti dura poco. Dopo solo tre anni Bracciodiferro chiude. Ma apre la strada a tutto il radical che verrà dopo. E ci lascia una testimonianza preziosa di quella irripetibile stagione del design italiano in cui l’alleanza fra imprenditori illuminati come Cesare Cassina e progettisti visionari e radicali aveva il coraggio di muoversi anche al di fuori dagli immediati interessi di mercato e di aprirsi a contaminazioni e sperimentazioni che avrebbero dato il loro frutto in futuro.

Ultimi articoli di Design

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram