50 anni dopo “The New Domestic Landscape”, la mostra che cambiò il design

L’esposizione del MoMa del 1972 mostrò il design italiano al mondo, rendendo l’Italia, un paese dalla modernità ancora debole, il punto di riferimento della disciplina moderna per eccellenza.

© 2022. Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze

Sono passati 50 anni esatti da uno dei momenti cruciali nella storia e nell’affermazione internazionale del design italiano: la mostra “Italy. The New Domestic Landscape”, pensata, programmata e organizzata da Emilio Ambasz con l’appoggio e il sostegno del Ministero del Commercio Estero ed Esposta al MoMA di New York dal 23 maggio all’11 settembre 1972. È soprattutto grazie a questa mostra, infatti, che un paese dalla modernità ancora debole e controversa come l’Italia diventa all’improvviso il punto di riferimento più avanzato di una disciplina eminentemente moderna come il design, e offre al mondo un modello e un metodo – progettuale prima ancora che produttivo – destinato a essere più e più volte ripreso e imitato a livello internazionale.

Domus n. 510, maggio 1972
Domus n. 510, maggio 1972

La mostra si divide in due sezioni: nella prima vengono esposti 180 oggetti del design italiano, scelti fra quelli più rappresentativi degli ultimi anni (tra cui, ad esempio, la poltrona Soriana di Afra e Tobia Scarpa, prodotta da Cassina, la seduta Mezzadro di Achille e Pier Giacomo Castiglioni per Zanotta, e numerose lampade della Flos e di Artemide); la seconda è costituita invece da 12 allestimenti realizzati appositamente per l’esposizione, volti a mettere a fuoco proposte abitative per il futuro. Una parte integrativa della Mostra è poi dedicata ai progetti vincitori di un concorso riservato a designer italiani di età inferiore ai 35 anni, promosso per consentire la libera espressione di un’idea, indipendentemente dalla possibilità di appoggiarsi a un’industria per la realizzazione dei prototipi.

UP5, Gaetano Pesce, Domus n. 1001, aprile 2016
UP5, C&B Italia, Gaetano Pesce, 1969, Domus n. 1001, aprile 2016

A tutti i designer invitati il MoMA chiede di lavorare su un tema progettuale predefinito: l’abitacolo. Le soluzioni proposte dai vari designer colpiscono ancora oggi per l’originalità e la forza espressiva: Ettore Sottsass disegna ad esempio un armadio mobile, quasi un guscio su ruote, o una “fisarmonica attrezzata”, che a secondo di come viene completato internamente diventa di volta in volta cucina, seduta, juke box, toilette, doccia o armadio, sulla base di una visione progettuale “mutante” che fa perdere significato agli spazi tradizionali della casa, ma che fa anche perdere agli elementi dell’arredo la loro forma codificata, per conformarli tutti all’unica forma modulare del contenitore.

Mario Bellini lavora invece sull’abitacolo dell’automobile, con l’intento di valorizzarlo in quanto luogo di relazione: il prototipo della sua Kar-a-sutra esposto al MoMA non solo libera l’abitacolo dell’auto dal vincolo delle posizioni fisse e prestabilite, ma inaugura una linea progettuale che anticipa di parecchi anni il design delle mono volume.

Kar-a-sutra, Mario Bellini, 1972, Domus n. 974, novembre 2013
Kar-a-sutra, Mario Bellini, 1972, Domus n. 974, novembre 2013

Per quanto riguarda gli altri progetti presentati, si va dalle soluzioni funzionaliste di Zanuso e Sapper (con il loro progetto di casa mobile formata da grandi capsule di plastica) alle visioni apocalittiche e post-catastrofiche di Gaetano Pesce (il cui Habitat per due persone, finto reperto archeologico dell’anno 2000 ritrovato in buono stato di conservazione un millennio dopo, è un esempio paradigmatico di design visionario applicato alla configurazione di uno spazio che sembra sospeso fra Escher e Piranesi); dall’approccio science fiction di Joe Colombo a quello multimediale e mediatico di Ugo La Pietra, dagli ambienti piramidali componibili di Gae Aulenti alla capsula mobile e espandibile in quattro direzioni di Alberto Rosselli, via via fino alle provocazioni più specificamente politiche di Gruppo Strum (che produce e presenta un fumetto) a quelle radical e antistituzionali di Enzo Mari, che scrive una lettera ai responsabili della Mostra.

Cellula abitativa per due persone, Gaetano Pesce 1971-72, Domus n. 954, marzo 2011
Cellula abitativa per due persone, Gaetano Pesce 1971-72, Domus n. 954, marzo 2011

Il gruppo Archizoom Associati propone invece una stanza vuota e grigia in cui la voce di una bambina descrive una grande casa luminosa e colorata, così come ogni visitatore potrebbe immaginarsela: viene affrontato così il grande tema epocale della partecipazione, unito all’utopia di un coinvolgimento diretto dell’utente/consumatore nella realizzazione del progetto.

Tutti assieme, delineano insomma un panorama “policentrico”, come scrive giustamente e acutamente Emilio Ambasz nell’introduzione al catalogo: ma proprio questa disomogeneità, questa pluralità di voci e di metodi, lungi dal rivelarsi una debolezza del design italiano, finisce per essere il suo valore aggiunto e il suo punto di forza, liberando flussi di creatività e di energia innovativa per lo più sconosciuti al design di aree geopolitiche ed economiche molto più a loro agio con la modernità di quanto non fosse l’Italia dei primi anni Settanta.

Valentine, Olivetti, Ettore Sottsass, 1969, Domus n. 1001, aprile 2016
Valentine, Olivetti, Ettore Sottsass, 1969, Domus n. 1001, aprile 2016

In America la mostra viene accolta in molto assolutamente positivo, ma in Italia l’esposizione suscita reazioni controverse. Un dibattito ospitato sulla rivista Abitare (n. 107, luglio-agosto 1972) raccoglie ad esempio voci per lo più critiche: chi parla di “canto del cigno del design italiano”, chi lamenta un po’ provincialisticamente che il design italiano esposto al MoMA non sia stato selezionato da italiani, chi invece avanza perplessità più radicali di ordine ideologico e disciplinare.

Il sociologo Francesco Alberoni, ad esempio, in un articolo programmaticamente intitolato Progetti per l’uomo immaginario, la stronca così: “L’impressione globale (…) è che ci troviamo di fronte ad una produzione, una offerta (in termini economici) che non è stata sollecitata da una reale domanda e che, addirittura, fa fatica ad immaginare il proprio pubblico consumatore; di una teoria slegata da una prassi, di un prodotto che non ha né marketing né mercato”.

Sacco, Zanotta, Piero Gatti Paolini, 1968, Domus n. 953, dicembre 2011
Sacco, Zanotta, Gatti, Paolini, Teodoro, 1968, Domus n. 953, dicembre 2011

Riecheggia, in simili posizioni, l’antico pregiudizio umanista nei confronti del design, così come l’idea paleo-funzionalista che il design debba essere semplice strumento per dare risposta a bisogni e domande sociali già evidenti e mature. Sfugge, al dibattito sulle riviste italiane, il respiro profetico e lungimirante che emana dai progetti esposti al MoMA, assieme all’idea che il design non debba essere necessariamente funzionale solo all’esistente, ma anche al possibile, non solo al presente, ma anche al futuro.

Di fatto, proprio da “Italy. The New Domestic Landscape” prende le mosse una delle poche vere politiche di esportazione culturale (ma anche progettuale e imprenditoriale) che l’Italia abbia saputo esprimere nella seconda metà del Novecento.

Immagine in apertura: Veduta dell’allestimento della mostra “Italy: The New Domestic Landscape”, MoMA, NY, 26 Maggio – 11 Settembre 1972. Courtesy © 2022. Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze

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