James Bridle è uno dei più attenti osservatori della deriva tecnologica nella quale ci troviamo immersi. A partire dalla constatazione che stiamo vivendo la trasformazione più profonda del nostro ambiente informativo, lavorativo e relazionale dall’invenzione della stampa di Johannes Gutenberg (1439 ca), Bridle afferma che il problema di vivere nel bel mezzo di una rivoluzione è l’impossibilità di avere una visione lunga di ciò che sta accadendo. L’epoca buia è il nostro tempo dominato dal passaggio da una tecnologia che facilita la comprensione del mondo a una sfera prevalentemente digitale che vede nel web non uno spazio pubblico, dell’agire collettivo e comunicativo, ma che ricade molto più nella cornice di un’economia privata governata da regole poco chiare.
“Un sistema economico fuori controllo che immiserisce molti e continua ad allargare il divario tra ricchi e poveri; il collasso del consenso politico e sociale in tutto il mondo con conseguente aumento dei nazionalismi, delle divisioni sociali ci riguarda tutti”, esordisce Bridle. “Attraverso le scienze, nella politica e nell’istruzione, nelle guerre e negli scambi commerciali, le nuove tecnologie non si limitano ad aumentare le nostre capacità, ma le modellano e le guidano attivamente, nel bene e nel male. È sempre più necessario essere in grado di pensare alle nuove tecnologie in modi diversi ed essere critici nei loro confronti, al fine di partecipare in modo significativo a questi processi e provare a dare una direzione più inclusiva. Nasce da qui, dal desiderio di provare a indagare la complessità delle nuove tecnologie il mio nuovo libro”, afferma l’artista inglese.

Marco Petroni: James, il tuo è un invito alla consapevolezza e alla conoscenza. Quali sono le strategie da mettere in campo?
James Bridle: Sono principalmente interessato ad aumentare l’alfabetizzazione di tutti attorno alle tecnologie di rete, con questo processo intendo sottolineare come si possa creare l’opportunità per tutti d’interagire con tali tecnologie e, quindi, partecipare al loro design e agli effetti che ne conseguono. Perché questo avvenga occorre una profonda riforma dell’educazione alla tecnologia che insegni sia le competenze informatiche di base sia quelle d’ingegneria dei sistemi più complessi portando un focus orientato verso l’etica e le conseguenze di queste discipline storicamente “apolitiche”. Questo processo di ripensamento richiede anche uno sforzo concertato per creare un pubblico molto più diversificato rispetto all’uso della tecnologia. Utenti e studenti diversi economicamente, socialmente e geograficamente. Solo attraverso questa partecipazione vedremo risultati più equi e distribuiti.
Nel libro sottolinei come il tuo saggio sia per un pubblico ampio. “Il lavoro da fare è analogo a quello degli idraulici, ma dobbiamo tenere a mente i bisogni dei non idraulici in ogni fase: il bisogno di capire e il bisogno di vivere anche quando non sempre capiamo. Ciò che è necessario non è una nuova tecnologia, ma nuove metafore”. Puoi chiarire cosa intendi per nuovo linguaggio?
Penso che ci sia un’opportunità enorme per un nuovo tipo di design, che invece di cercare di rendere le esperienze più facili per gli utenti, si concentra sul rendere le loro esperienze più educative. È ormai chiaro che troppo spesso la tecnologia ci rende passivi attivando processi che non sono criticati e che tendono a sfuggire a ogni possibilità di messa in questione. Questo è il mondo superficiale dell’interazione senza attrito ed è qui che entra in gioco la manipolazione di massa in cui ci troviamo. Sono convinto che occorra lavorare per rendere più inclusiva la tecnologia attivando processi che portano gli utenti a impegnarsi, a comprendere meglio i sistemi ed essere in grado di fare di più e soprattutto di operare scelte migliori per la loro socialità e la loro sfera relazionale. Questo è un nuovo modo di pensare la tecnologia.

Emerge chiaro dalle tue riflessioni che è in gioco un potenziale in via di sviluppo, che non risolverebbe necessariamente tutti i problemi ma permette ad altre cose di avere luogo. In un certo senso, il lavoro critico non è mai “finito”, ma costantemente in costruzione, adattandosi o evolvendosi. Sei d’accordo con questa idea di qualcosa a portata di mano? E soprattutto cosa fai per connettere teoria e pratica?
Penso che entrambe le opzioni siano valide e da approfondire. Quello che cerco di fare nel mio lavoro è di attivare un pensiero sistemico e non deterministico ovvero come possiamo guardare questi enormi sistemi che influenzano ogni aspetto della nostra vita, rendendoli ragionevolmente significativi, riconoscendo ed evidenziando i loro problemi profondi. Questo è possibile attraverso le nostre scelte degli strumenti più adatti a generare pratiche inclusive e trasparenti – nella scelta di tecnologie distribuite peer-to-peer rispetto a quelle centralizzate, per esempio. Questo atteggiamento mette in gioco anche questioni politiche più ampie.
Dal tuo libro sembra emergere un’idea che il design è sempre un atto politico perché è una condizione performativa che riguarda profondamente scelte e possibilità. Ho frainteso il tuo messaggio?
No, assolutamente, la sfera politica ha molto a che fare con il mondo del progetto. Se guardiamo allo stato del design ci rendiamo conto come questa disciplina debba incarnarsi negli ambienti ibridi, fisici e virtuali delle società in evoluzione. Questo ruolo del design richiede nuovi riferimenti teorici e nuovi ambiti di ricerca che affrontino le aree problematiche della nostra contemporaneità. I progettisti spesso non hanno la necessaria comprensione e le scuole di design non istruiscono gli studenti su questi temi, sulle complessità del comportamento umano e sociale.
Immagine di apertura: James Bridle, “A Flag for No Nations”, 2016, Ellinikon, Grecia. Installazione site-specific, branch, mylar blanket. Foto Courtesy l’artista / http://booktwo.org/notebook/a-flag-for-no-nations/