Quando il design si avventura su un palcoscenico, su una pedana o su un podio (come ha fatto sempre più nell’ultimo decennio, nei musei, nelle gallerie e nelle fiere) di solito assume certe connotazioni. Le quali possono implicare l’allontanamento dei beni di consumo dalla banalità della vita quotidiana, l’intreccio del design contemporaneo con le tattiche e l’economia del mondo dell’arte, nonché la feticizzazione dell’oggetto sotto forma di edizione limitata, ambito segno del gusto anziché puro strumento di utilità.
In questi casi il palcoscenico comporta il pericolo di soffocare di fatto i discorsi sul design. Dopo tutto l’oggetto non si vede mai in mano a una persona reale, né lo si vede logorarsi e invecchiare negli anni dell’uso. Anzi, compare solo in circostanze eccezionali, in posa sotto i riflettori e lontano dal comune livello concreto dell’esistenza.

Il peso concettuale di questa situazione prevalente non fa che rendere ancor più interessante l’atteggiamento progettuale di Judith Seng. In occasione del salone Design Miami/ Basel 2013 (dal 10 al 16 giugno) la designer berlinese è stata incaricata di realizzare la quarta edizione della sua collezione Acting Things, intitolata Material Flow. Nell’atrio d’ingresso della Messeplatz, Seng ha lavorato otto ore al giorno per una settimana accanto ai collaboratori del suo studio e ai ballerini Barbara Berti e Julian Weber, realizzando una collezione di prodotti.
La performance è stata concepita come rappresentazione vivente della creatività progettuale, dal trattamento dei materiali alla trasformazione delle forme, dall’archiviazione allo scarto e al riuso. Ma, anziché plasmare una forma predeterminata, Material Flow la esprime come risultato e registrazione dell’interazione tra corpi danzanti e cera plasmabile.



