
Questa sua ‘ossessione’ ha una genesi chiara, dichiarata: la vita in un Paese dove la luce naturale cede il posto a lunghi periodi di buio, obbligando a ricorrere a quella artificiale, che però fa sembrare gli ambienti angusti. Il primo intervento luminoso lo ha messo in atto in una stanza della casa della madre, a Oslo, ancora sedicenne. Nonostante la camera avesse soffitti alti, una finestra ampia e un balcone, l’arrivo della sera e il ricorso alla luce artificiale lo trasformava in un locale piccolo. Bastò mettere dei neon dietro le tende per ampliare percettivamente lo spazio e ridurre la sensazione di reclusione e isolamento.
Prende le mosse da questa idea giovanile il suo primo progetto, Daylight Comes Sideways: una finta finestra che, in realtà, è uno schermo a led, in cui si muove un albero dalla sagoma sfocata, lontana. Era il 2007, e Rybakken era alla ricerca di soluzioni che dessero la sensazione che la luce naturale entrasse dalle pareti, come farà con il progetto del tavolo—una lampada sotto mentite spoglie—e poi ancora per il foyer dell’azienda svedese Vasakronan, rivestito con lastre di Corian che nascondono fogli di alluminio con led incorporati, montati a formare la sagoma di finestre. Solo alla sera, nell’intenzione del designer, l’inganno diventa evidente.


Nonostante la tecnologia abbia un certo peso nello sviluppo dei porgetti sulla luce, Rybakken la ritiene secondaria rispetto al concept. E la nasconde, come ha fatto con la nuova lampada Ascent per Luceplan, che presenterà al Salone. Ideata inizialmente come variante da tavolo di Counterbalance — messa in produzione lo scorso anno per la stessa azienda—, ne ripropone la calotta, inserita qui a scorrimento su uno stelo sottile, nel quale si nasconde l’apparato tecnologico che consente di accenderla, regolarne l’intensità e spegnerla semplicemente muovendo la calotta verticalmente. Il circuito elettronico, deputato a trasmettere gli input al microprocessore che interpreta il cambio di stato della lampada, si intravede appena guardando nella sottilissima fessura che c’è sullo stelo.

“Anche se sotto un certo profilo sono un fanatico della tecnologia”, aggiunge, “penso che farne la forza guida di un progetto significhi condannarlo all’obsolescenza nel giro di poco tempo. Basta guardare le lampade a led di cinque anni fa per rendersene conto, o anche progetti di un designer come Ingo Maurer, in cui è la fonte luminosa a costituire il carattere di novità”. Le sue lampade sono pensate per resistere nel tempo perché concettuali; la tecnologia può essere aggiornata lasciando intatta l’idea che ha dato loro vita.
In linea con questa filosofia, Rybakken vuole concentrarsi sullo sviluppo di pochi progetti — di design ma anche installazioni — molto ben curati e forti. Crede nel lavoro in profondità fatto da professionisti, e non condivide gli entusiasmi per le stampanti 3d (“forse perché le usavamo già a scuola, io mi sento un designer 2d”) o per il progetto open source (“mi spaventa un po’ che il progetto esca dalle mani dei professionisti”). Non si può certo dire che Daniel Rybakken risponda agli schemi canonici del giovane designer scandinavo, e probabilmente proprio questa è la sua forza.



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