Ricordando Bob Noorda

Ricordiamo il maestro della grafica da poco scomparso con le parole di alcuni dei suoi più cari amici e compagni di lavoro: Massimo Vignelli, Mauro Panzeri, Franco Mirenzi e Maurizio Minoggio.

«A Milano, agli inizi degli anni Sessanta, Bob Noorda era il designer con cui volevo collaborare. Il suo celebre lavoro per la Metropolitana di Milano era di altissimo livello. La nostra amicizia nacque recandoci insieme ogni settimana in auto a Venezia per insegnare graphic design alla Scuola di Design Industriale. Quell'esperienza e quella vicinanza hanno cementato la nostra amicizia e nel 1964 abbiamo deciso di unire i nostri uffici; questo accadde quando, insieme ad altri amici di Chicago, fondammo Unimark International. Per un anno abbiamo lavorato insieme allo stesso tavolo, ciascuno ai suoi progetti, scambiandoci continuamente le impressioni reciproche. Quando sono partito per gli Stati Uniti, ho messo nelle sue mani tutti i miei clienti e lui se ne è preso cura, senza perderne nessuno. Negli anni successivi, insieme, abbiamo lavorato ad alcuni progetti, tra i quali la segnaletica della Metropolitana di New York. Ricordo quando Bob venne a New York e trascorreva l'intera giornata sottoterra, nella metropolitana, per osservare il flusso del traffico e individuare i punti chiave in cui collocare la segnaletica. Ricordo anche che decidevamo insieme ogni dettaglio, dalla scelta del carattere alla spaziatura, dal codice dei colori alla fase di realizzazione. Bob aveva una mente molto ordinata, era un piacere vedere come, in lui, la logica prevalesse sui fattori emotivi per trovare la miglior soluzione possibile. Il suo lavoro era estremamente organizzato, la sua origine olandese ne rifletteva la cultura, dando a tutti i suoi progetti un carattere spartano ed essenziale. La sua figura elegante e i modi gentili gli hanno aperto tutte le porte della società milanese, offrendogli l'opportunità di entrare in contatto con i clienti migliori. Le sue maniere erano cortesi, pacate, quelle che definiremmo da vero gentiluomo. Il suo design ne rifletteva il carattere in ogni dettaglio. Il suo eccezionale senso della tipografia si può cogliere in tutto l'interminabile elenco delle pubblicazioni da lui realizzate nel corso degli anni. Era sposato a una prolifica designer, Ornella, una presenza complementare nella sua vita, che ha apportato un elemento di briosità e freschezza al suo stile sobrio. Quando Unimark ha chiuso gli uffici americani, Bob ha mantenuto in attività ancora per molti anni quello di Milano, diventandone proprietario. Bob Noorda è stato un designer che ha contribuito enormemente al riconoscimento della nostra professione, una persona nobile verso cui tutti noi siamo debitori. Il suo esempio rimarrà un faro per noi tutti». Massimo Vignelli

«Bob Noorda mi regalò due anni fa un piccolo libro in olandese dedicato a lui, quando lo andai a trovare per chiedergli di partecipare a una mostra sugli anni '70 di cui curavo una sezione, dedicata alla grafica. In copertina c'è un suo ritratto di profilo in bianco e nero, stretto sul volto con sopra la sua dedica, che gli avevo quasi strappato. L'ho ritrovato l'altro giorno nella mia libreria e l'ho messo sul tavolo a farmi compagnia, quando ho saputo. L'ho mostrato ai miei collaboratori e ho raccontato loro come l'avevo conosciuto, i lavori divisi con il suo studio, quant'era disposto alla risata gentile ma timida, com'era di poche parole e anche un po' ragazzo, col ciuffo e l'occhio azzurro, quant'era sordo (quando voleva) e quanto fumava. Così l'ho ricordato, parlando ad alta voce nel mio studio sul filo dei ricordi e dell'emozione. E ho anche detto loro come sapeva scrivere a mano in Bodoni, tondo e corsivo. E ho lasciato tutti di stucco». Mauro Panzeri

«Lo conoscevo da moltissimi anni, dalla metà degli anni Sessanta. Ho avuto l'occasione di diventare suo collega prima (e socio poi), quando ho cominciato a lavorare nello studio che aveva fondato insieme a Vignelli e altri progettisti internazionali. Io mi occupavo di design industriale e di architettura d'interni, si lavorava in gruppo guidati dal suo entusiasmo e dalla sua grande sensibilità. Bob è stato uno dei primi a immettere nell'industria italiana l'immagine coordinata : tutto doveva essere ricondotto a un unico pensiero progettuale riconducibile al design. Lavorare con lui era entusiasmante: ogni problema veniva risolto in un'atmosfera di serenità. Aveva un atteggiamento semplice e scherzoso. Bravissimo e geniale: ragionare con lui su un progetto significava scoprire cose nuove. E lo scambio era reciproco, perché lui stesso apprezzava le buone idee degli altri che si esprimevano in libertà. Anche in occasione delle recenti polemiche sulla metropolitana, che l'hanno molto amareggiato, è emerso il suo carattere generoso: il suo primo pensiero è stato quello di salvaguardare il progetto delle stazioni di Albini e suo non tanto per vanità quanto per lasciare alla città delle tracce importanti divenute un simbolo del design italiano e milanese. Comprendeva la necessità di qualche adeguamento, da realizzare in modo ragionato e condiviso con chi fino a poco prima se ne era occupato con sapiente impegno. Ho lavorato con lui fino al 2000, quando lo studio di Milano è stato sciolto, quasi dall'inizio della mia carriera. Allora aveva quarant'anni ed era un giovane molto brillante. E dopo tanti anni, comportamento, aspetto e spirito giovani non l'avevano mai abbandonato». Franco Mirenzi

«Per noi, giovani studenti di graphic design, agli inizi degli anni Ottanta, Bob Noorda era un mito. Celebre come una star. Conoscevamo la sua storia – era già storia – e i suoi progetti. Poi l'ho conosciuto di persona. Era venuto a insegnare nella scuola dove studiavo, l'Istituto Europeo di Design. La prima lezione fu una conferenza in aula magna, arrivò con il carousel di diapositive sotto braccio e la sigaretta pencolante fra le labbra. Dopo essersi scusato di non parlare bene l'italiano perché veniva dall'Olanda, presentò i suoi storici progetti di immagine coordinata con grande semplicità e modestia, che stupì e piacque subito a tutti. Si era seduto tra gli studenti e proiettava le diapositive, illustrando il suo lavoro con elegante noncuranza. Ho poi imparato che questo era uno dei tratti distintivi del suo carattere: non dare mai troppa importanza alle cose, né a se stessi, accostarsi alla vita, alle persone, in modo semplice, leggero. Ho compreso che la sua semplicità era una conquista, ottenuta eliminando, con estremo rigore e senza concessioni, l'inutile. La sua semplicità era saggezza. Mi chiamò a lavorare con lui quando ero ancora studente. Ero colpito dalla libertà che, sin dall'inizio, mi lasciava nella elaborazione dei progetti. La sua guida era discreta. Il suo insegnamento silenzioso ed efficace. Il rapporto non si è più interrotto. Dalle aule scolastiche agli uffici dell'Unimark, dalla sede storica e nobile in via Santa Maria Fulcorina a fuori dall'ufficio. Solo apparentemente distratto era in realtà un acuto, quieto osservatore della realtà, di cui riusciva a cogliere la natura più profonda, il carattere più distintivo, che faceva entrare nel suo progetto, dandogli forza, imprimendogli la sua cifra essenziale, riconoscibilissima. Consapevole della responsabilità sociale del designer della comunicazione, sapeva bene che il suo lavoro aveva segnato il nostro paese, e non solo. Considerava il suo lavoro importante, ma non per vanto personale, questa importanza era riservata alla qualità del progetto, che favoriva sempre la funzionalità accompagnata dall'estetica. Per descrivere il suo operato non uso la parola professionalità, perché applicarla ad una maestro come lui sarebbe scontato ma soprattutto limitante. È un termine che non esprime la sua dolcezza e umanità. Come la prima volta, in tante altre occasioni, anzi sempre, all'inizio di ogni conferenza in pubblico, lo sentivo scusarsi di non parlare bene l'italiano perché veniva dall'Olanda. Anche prima della lectio magistralis, il giorno che ricevette la laura ad honorem al Politecnico di Milano, nel marzo del 2005. Era a Milano da più di cinquant'anni e in questa città si sentiva a casa sua, ma amava ricordare che veniva dall'Olanda. Certo era diventato anche un vezzo, tuttavia lo scusarsi di non parlare bene l'italiano celava qualcosa. Forse voleva chiedere scusa al pubblico perché riteneva immeritata l'attenzione che gli veniva rivolta. Era un modo per riaffermare di nascosto la sua modestia. Con elegante noncuranza». Maurizio Minoggio
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