Come è nata la tua passione per il vetro?
Jeff Zimmerman: Mentre studiavo Antropologia a Santa Barbara, in California, ho iniziato, quasi per caso, un programma dedicato alla lavorazione del vetro. È stato naturale, ho imparato velocemente e ho continuato, durante l'estate, a seguire i corsi della Pilchuck School a Seattle imparando le tecniche tradizionali a fianco di grandi maestri come Lino Tagliapietro e Pino Signoretto. Soffiare il vetro è difficile, è una sorta di meditazione in cui è necessario mantenere la concentrazione e non pensare a nient'altro, per me è stato sorprendente ed ero molto concentrato in quello che facevo.
Durante i tuoi studi hai anche collaborato con artisti…
J. Z.: Sì, Maya Lin, Kiki Smith e Ann Hamilton che erano invitati durante i programmi estivi e ci comunicavano il loro modo di utilizzare il vetro come mezzo espressivo. In seguito ho lavorato in Francia e tra gli altri ho incontrato Robert Wilson e Gaetano Pesce.
Negli anni Novanta hai fatto parte del B team, gruppo sperimentale influenzato dal dadaismo da un lato e dal punk rock dall'altro che si esprimeva unendo la pratica della performance alla lavorazione del vetro…
J. Z.: È iniziato tutto nel 1993, quando sono entrato nel gruppo raggiungendo i suoi fondatori Zesty Meyers e Evan Snyderman, studenti del Massachusetts College of Art and Design, e vi sono rimasto fino al suo scioglimento, nel 1998. Realizzavamo performance nei campus universitari coinvolgendo gli studenti e unendo il teatro, la performance e l'installazione e dando dimostrazioni pratiche della lavorazione del vetro. Abbiamo fatto un tour nel 1997 partecipando al Fringe Festival a Philadelphia e esibendoci al New Museum of Contemporary Art a New York.
Poi hai iniziato a lavorare da solo. Come nascono i tuoi pezzi?
J. Z.: A volte passo attraverso il disegno, mi capita di avere un'idea e fare uno schizzo, ma più spesso disegno direttamente con il vetro, nel mio studio di Brooklyn guardo la forma che si sta creando e reagisco di conseguenza nello svilupparla. Non lavoro a partire da disegni bidimensionali, ma sempre tridimensionali. Per la serie Morphos ad esempio, quello che ho fatto è stato allungare il vetro che quando è caldo è malleabile e si può davvero controllare, e ho lavorato seguendo una semplice linea guida. Come risultato ogni pezzo è diverso dall'altro.
In forma pura il vetro è trasparente, mentre il colore è un elemento importante nelle tue opere. E' così?
J. Z.: Si, assolutamente. Il vetro colorato è meraviglioso, molto caldo. Mentre si soffia il vetro, il colore viene aggiunto a poco a poco, così si può deciderne l'intensità e la luminescenza. Ciò a cui presto maggiormente attenzione è l'esatta quantità di colore che determina la nuance. Mi piace giocare con la quantità di pigmento, ad esempio l'azzurro diluito con acqua o olio dà una leggera luce e lascia intravedere il bianco al di sotto. Utilizzo la densità dei bianchi per rendere le diverse qualità della luminescenza che può essere più opaca o più traslucida. I miei pezzi sono tutti bianchi, ma c'è un colore nascosto all'interno. In questo lampadario a grappolo ho usato della baking soda, l'ho aggiunta per produrre dei buchi sulla superficie del bianco e allo stesso tempo ha prodotto del blu e dell'arancione intorno. È come disegnare, avanzo per esperimenti, inizio facendo una cosa e la lascio crescere. Il modo in cui disegno il vetro è lo stesso modo in cui le cose crescono in natura, ammettendo degli errori. Gli alberi sono sempre perfetti d'altronde, non esistono alberi sbagliati!
Hai appena fatto riferimento alla natura, come utilizzi questo riferimento?
J. Z.: Non voglio essere letterale, non voglio rappresentare la natura, ma credo di essere partito dall'idea che il processo di soffiare il vetro mimi un momento congelato in natura. Il modo in cui si creano le stalattiti e le stalagmiti: si parte da un liquido che poi si solidifica. E' un fenomeno, piuttosto che una forma naturale quella a cui mi ispiro nel mio lavoro. Ha senso dire che è il modo in cui la natura disegna. Ci sono cose in natura che sono più accurate, quasi magiche, come il sapone o le bolle di sapone: i colori e le forme che creano mi sembrano sempre perfette. Lavoro il vetro da vent'anni, so quanto le cose sono difficili da ottenere e in alcuni casi valico i miei confini per riuscire a crearle e ci arrivo attraverso esperimenti, a volte partendo da riferimenti concettuali, come in questo lavoro in cui le candele diventano serpenti. Lavoro su un doppio binario: il fare da un lato e dall'altro processi concettuali e il lavoro risulta dalla combinazione dei due.
