Enzo Mari. To translate is to betray (oneself)

L'elegia più struggente dedicata alla progressiva sparizione del romanzo europeo, con il venir meno dei grandi talenti del Novecento, è di Milan Kundera, con il suo I testamenti traditi del 1993.

L'esule da Praga tenta un'impossibile sintesi: che cos'è il romanzo o, meglio, come sarebbe stato, se veramente Max Brod avesse rispettato le ultime volontà di Kafka, lasciare ai posteri solo poche delle sue opere? E se i traduttori del romanziere avessero tenuto fede davvero all'originale? Domande da maniaci del testo: dunque domande che Enzo Mari – maniaco di una forma particolare di testo, quello visivo – si sarà posto milioni di volte, facendo e ripensando la sua opera di artista e designer. Anche nell'ennesima, bella mostra allestita a Torino ("L'arte del design") Mari si autocelebra, non a torto, come l'iniziatore della tendenza italiana a tradurre l'arte in design. Eppure, proprio Mari per lunghi anni ha cercato di mascherarsi da designer, pur sapendo benissimo di essere fondamentalmente un artista, seppure un artista del Novecento. Stavolta però non riesce a ingannarci, nemmeno avendo come complice l'anagrafe, che lo lascia libero per scorribande in un altro secolo, con cui forse non c'entra niente. Tradurre è tradire (nel caso di Mari, se stessi), come ricordava il nostro rimpianto amico comune Renato Pedio: e non si può non commuoversi, rivedendo in questa mostra e nel suo raccontare l'evoluzione di molti progetti il tocco dell'analisi definitiva di Pedio, straordinario traduttore di grandi testi e di grandi utopie, inclusa quella di Mari. Stefano Casciani

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