Los Angeles festeggia con una grande retrospettiva i 65 anni di lavoro di Ettore Sottsass. Un umanista che ha sempre innalzato i rapporti umani al di sopra del buon gusto borghese. Testo di Peter Zellner. A cura di Karen Marta, Loredana Mascheroni

A volte, come ci ricorda Brecht, è più importante scegliere di essere umani che mostrare buon gusto. Brecht, che trascorse un periodo (piuttosto infelice) a Hollywood, descrisse una volta Los Angeles come una versione terrena dell’Inferno. Ed è certo plausibile ipotizzare che l’abbia fatto proprio perché Los Angeles, per quanto artefatta sia, fa di tutto per stimolare il buon gusto. Ma se questo rende la città più o meno umana è probabilmente impossibile stabilirlo. A ogni modo possiamo supporre che Brecht sarebbe contento di scoprire che proprio Los Angeles ha recentemente promosso la prima significativa mostra e un serio lavoro di valutazione dell’opera di Ettore Sottsass da parte di un grande museo americano.

Dovesse visitare la mostra, Brecht potrebbe anche riconoscere che Sottsass, forse più che ogni altro architetto-designer di oggi, ha non solo rifiutato più e più volte il buon gusto, o quello che Flaubert definì “…il livello di stupidità raggiunto dalla borghesia”, ma ha anche, significativamente, voltato le spalle a qualsiasi inclinazione accademica o disciplinare in favore di una pratica culturale davvero indipendente gestita e regolata in totale autonomia.

Se c’è una qualità brechtiana che appare evidente nel lavoro di Sottsass, questa si colloca specialmente nella penetrante osservazione e nel riconoscimento, da parte dell’autore, dello stretto legame tra rapporti umani e cultura materiale (vedi Hans Höger, “Ettore Sottsass. Existential design”, Domus 880, aprile 2005). Per questo, vale la pena di osservare che la più importante rivelazione offerta da questa mostra e dal catalogo che la accompagna è rappresentata dall’illustrazione dell’estensione e della profondità dei rapporti umani che Sottsass ha stretto nel corso della sua carriera. Di un percorso che si snoda lungo un periodo di quasi 65 anni, che ha collegato tra loro discipline diverse e prodotto numerosi oggetti e media diversi (architettura, mobili, vetri, ceramiche, gioielli e design industriale).

In verità, quel che emerge da questa selezionata – e per certi versi circoscritta – panoramica dell’attività di Sottsass è uno spirito didattico persistente e profondamente collaborativo. Mentre il lavoro certamente conserva e sostiene l’eredità dell’autore, è evidente che il successo di Sottsass (se tale termine ha bisogno di essere applicato al suo lavoro) è dipeso quasi interamente dall’ininterrotta collaborazione con artigiani, gallerie, laboratori, produttori, colleghi e clienti che egli ha attentamente generato, nutrito e curato dalla sua base principale: Milano. Ciascun manufatto o collezione di oggetti è inevitabilmente legato a un particolare rapporto che Sottsass ha sostenuto e dal quale, soprattutto, ha imparato. Nella sua totalità, il lavoro in mostra in questo seguito della più completa rassegna allestita l’anno scorso al MART di Rovereto sembra sempre capace di spaziare, di includere processi variabili ma anche sistemi di idee sorprendentemente mutevoli.

Se possiamo speculare sul fatto che i rapporti di Sottsass sono stati funzionali a un’espansione piuttosto che limitanti, flessibili anziché dottrinari, allora anche l’aspetto didattico del lavoro risulta alla fine mascherato, perché in fondo l’artista non dà lezioni, e non offre tutela a iniziati e non iniziati. Piuttosto, come Brecht, il quale non descrisse spesso l’umano (o la natura umana) dentro all’individuo, ma era piuttosto motivato a caratterizzare i rapporti umani sopra l’illusione di una vita interiore creata ad arte, Sottsass riesce nel compito di rendere in qualche modo estraneo ciò che ci è familiare. Sottsass permette che il singolo o il consumatore sia impegnato ad affrontare in modo sufficientemente critico ciascun oggetto disegnato, così da renderlo allo stesso tempo sconosciuto e unico. Questo “effetto estraniante”, quel che Brecht chiamò Verfremdungseffekt, richiede di considerare criticamente l’oggetto progettato che abbiamo dinanzi a noi piuttosto che limitarsi al mero consumo del prodotto di design.

Sottsass ci esorta ad affrontare le sue posizioni etiche e artistiche e, nel porre i rapporti umani al di sopra del buon gusto, insieme a Brecht ci dice che l’arte non deve mai divertire: essa deve soprattutto insegnare. Così, questa mostra americana, da tempo dovuta, ci conferma se non altro che Ettore Sottsass, nel ruolo di designer-architetto-artista, ha scelto insistentemente di essere un umanista, di rifiutare le esigenze e le realtà del mercato e di respingere ogni attitudine eccessivamente puritana verso la funzione, il pragmatismo e la concretezza. Essa inoltre mette in chiaro che l’intera sua opera oppone aperta resistenza agli egemonici imperativi culturali, economici e politici del XX secolo, e che rappresenta una muta negazione del capitalismo in nome di quello che potremmo chiamare il piacere e la santità dello scambio culturale.

Allo stesso modo, il personalissimo punto di vista di Sottsass dev’essere infine considerato contrario a qualsiasi esempio degli ismi dominanti, imposti dalle ortodossie ereditate dal secolo scorso – non ultimo tra questi il funzionalismo, o quello che noi americani chiameremmo più aforisticamente “design task orientation” (indirizzo del lavoro progettuale): ossia, il valore del lavoro dinanzi al piacere.

Peter Zellner è architetto, giornalista e curatore di mostre. Vive a Los Angeles e insegna al Southern California Institute of Architecture.