Damien Hirst, Pierre Restany, e un ristorante ad ispirazione farmacologica

Dall’archivio Domus, un dialogo del 1998 tra il critico francese – colonna portante della rivista per decenni – e l’allora enfant terrible dell’arte, sulla nascita del Pharmacy, il suo locale londinese arredato da Jasper Morrison, e di un nuovo pop internazionale.

Alla fine degli anni ‘90, Damien Hirst è un artista che si è già collocato nelle posizioni più alte del circuito globale, per visibilità e per guadagni: dal 1988 quando con la mostra collettiva Freeze, e col supporto del gallerista Charles Saatchi, lui e i suoi compagni della Goldsmith tra cui Tracey Emin e Ian Davenport formano il gruppo dei Young British Artists, Hirst inanella premi e provocazioni che lo rendono una celebrità. Del 1991 sono il Turner Prize e The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, il famoso squalo sospeso in una vasca di formaldeide. Sul numero 806 del luglio 1998, Domus presenta il Pharmacy, l’ultima impresa di Hirst, un ristorante creato a Londra assieme a Mike Rundell e Jasper Morrison, e a commentare il progetto troviamo una conversazione dell’artista con il critico Pierre Restany: siamo entrati nell’era del pop (?). Dati i personaggi, non c’è che da aspettarsi uno scambio come minimo fiammeggiante.

Domus 806, luglio 1998

Siamo entrati nell’era pop

Pierre Restany intervista Damien Hirst

Sono contento di questa conversazione, perché qui, nell’Europa continentale, soprattutto in Francia e in Italia, siamo profondamente affascinati da te, come da una specie di fenomeno sociologico.
Sociologico, wow!

Beh, dico così solo perché tu incarni, nella Londra di oggi, una tendenza, una specie di atmosfera creativa generale, di scambio interpersonale di carattere molto forte, fitto e rapido, svelto. È molto interessante: per noi europei continentali eri un perfetto sconosciuto fino al 1993 e alla tua partecipazione alla sezione Aperto della Biennale di Venezia. La tua opera ha suscitato una profonda impressione, e subito dopo ci siamo resi conto che rappresentavi il ritratto preciso di una nuova corrente pop inglese: dopo cinque anni, siamo nel 1998, penso proprio che sia vero. Il tuo Pharmacy, per esempio, a Notting Hill, è diventato il punto di ritrovo e la vetrina di questa nuova corrente. Per tuo tramite Londra ha scoperto un modo rapidissimo di creare una nuova atmosfera pop. Capisci, quello che mi affascina è proprio questo cambiamento reale: prima, nella prima ondata pop, quella di Lawrence Alloway con Peter Blake, Hamilton, Hockney, Allen Jones, un ritmo lento con una profonda preparazione intellettuale fino all’esplosione finale; poi, nella seconda, con te, diventa qualcosa di fortemente esistenziale, una specie di velocizzazione dello stile di vita.
Io la vedo un po’ diversamente. Mi pare che se si considera la prima ondata, quella di Peter Blake, se si pensa che c’erano coinvolti anche i Beatles, allora sembra poca cosa. Voglio dire, come Peter Blake disegnò la copertina di Sergeant Pepper’s, Richard Hamilton disegnò quella del White Album, e queste ibridazioni tra musica pop e arte pop e cultura popolare, credo che in quegli anni si verificassero, ma penso che ci fosse la coscienza diffusa che si verificavano in modo straordinariamente stimolante. Io posso solo creare l’immagine delle case discografiche, anch’io, posso disegnare etichette e arredare ristoranti... Voglio dire, ciò che faceva Richard Hamilton con portacenere e anelli, cose pubblicitarie, non è molto diverso da aprire un ristorante.

Domus 806, luglio 1998

Sotto questo aspetto ti senti molto vicino allo spirito di sintesi della prima ondata pop, non è vero?
È che la parola pop mi piace. Pop per me significa arte, qualcosa di assolutamente nuovo in arte, che era molto interessante. Voglio dire, l’arte è popolare. Non me lo sono inventato adesso, e credo che oggi l’arte sia molto più popolare di allora. Mi pare che ci sia molta più attenzione per l’arte da parte dei media. Naturalmente l’arte è legata molto fortemente a tutti i sistemi di comunicazione, l’arte è una dimensione sintetica della comunicazione e questo può provocare rapidi cambiamenti.
Prima di tutto l’arte parla della vita, ed è sempre stato così, mentre il mondo dell’arte parla di soldi, ed è sempre stato così. Credo che negli anni Sessanta il problema non fosse l’arte ma il mondo dell’arte, e per me è molto più facile ignorare il mondo dell’arte e raggiungere l’obiettivo con l’arte. Credo che se ci si concentra sul futuro, come faccio io, si può fare di tutto. Al momento fai una certa cosa, non è difficile pensare di aprire un ristorante, disegnare copertine di dischi, progettare l’immagine di una casa discografica, creare moda. Intendo dire che l’arte può essere qualunque cosa e andare dappertutto. Dimmi, che atmosfera c’è nel tuo ristorante Pharmacy? La gente ci va, apprezza il posto, oppure sono un po’ sopraffatti dal progetto?
Niente affatto. Ho fatto di tutto per evitarlo. Per me in un ristorante la funzionalità viene prima dell’estetica. Un tale è venuto da me al ristorante, mentre stavo cenando, e mi ha detto: “Ah, signor Hirst. Volevo proprio chiederle qual è il significato di questo ristorante”. Gli ho risposto: “Ma stia zitto!”, e lui se n’ è andato a mangiare.

Domus 806, luglio 1998

Pensi che questa tua impostazione, questo tuo stile – tu non fai mostre, tu fai quello che ti piace fare – sia davvero compreso e percepito dal pubblico come un nuovo modo di fare arte, di dare all’arte una dimensione nuova?
Non mi pare che il pubblico abbia una convinzione di questo genere, ma io sì. Oggi mi sento come se fossi appena uscito da scuola, quando si può fare di tutto ed è sconvolgente, e anche complicato e difficile... Capisci, le strade che si possono imboccare sono infinite... Intendo dire, le possibilità sono infinite e, prima che uno capisca dov’è, si ritrova circondato da tutti questi meccanismi che lo spingono a fare Damien Hirst, e pensa: “Ma perché?”.

Pensi che molta gente trovi divertente il tuo ristorante e lo apprezzi?
Penso che molta gente lo apprezzi, ma anche che un sacco di gente nel mondo dell’arte ne sia profondamente spaventata. Voglio dire, quando uno se ne viene fuori con l’idea di aprire un ristorante, molti pensano: “Santo cielo, si sta vendendo il nome, è alla frutta, si è sputtanato”. E lui fa anche una bella scommessa, perché si espone in pieno al giudizio del pubblico, non si può starsene nel proprio studio a far sperimentazioni e poi, quando si è arrivati al risultato giusto, fare una mostra; si ha una sola possibilità.

Ti vanno riconosciuti i rischi che ti sei assunto, almeno per questo. O no?
Anche i galleristi dicono: “Farai calare i prezzi delle tue opere, i tuoi collezionisti si seccheranno”. Io penso che siano tutte balle. Beh, adesso come adesso mi telefonano per chiedermi di riservargli un tavolo, il che è stupendo. Voglio dire, c’è una gran differenza tra l’ideale e la realtà, e credo che tutti abbiano paura dell’ideale. Insomma, una volta che si tratta di una cosa reale, sai com’è, dicono: “Quando ci si va a cena?”. Ricevo moltissime telefonate, gente che vuole prenotare un tavolo, ogni settimana. Mi chiamano persone, come certi galleristi, che non sento da molto tempo; mi telefonano e mi chiedono: “Come stai?”, e io penso: “Ma perché mi telefonano?”. E alla fine dicono: “Mi prenoti un tavolo per domenica sera, per favore, per cinque persone?”.

Domus 806, luglio 1998

Ti chiedono solo questo?
Per essere onesto, la grande domanda che mi fanno è: “Come artista sei obbligato a vendere arte per mantenere un certo livello di vita”; per fare grande arte devi pagare, altrimenti non ci riesci; per questo l’arte è sempre stata molto pericolosa per un artista, perché bisogna far soldi. Il ristorante per me è come l’arte: per fortuna in questo momento, mentre stiamo conversando, è pieno di gente che spende soldi e si diverte e io sono a posto. Non sono costretto a vendere arte per sopravvivere, il che è una soluzione stupenda. Dà parecchia libertà, e penso che tutti ne abbiano bisogno. E le istituzioni? Se ti chiedessero una grande mostra in un museo, o di partecipare a un evento, come l’attuale fiera di Lisbona, quale sarebbe la tua reazione?
Non ho tempo. Sono troppo preoccupato di andare avanti per vedere le cose con un occhio retrospettivo.

Lavori a stretto contatto con architetti, designer, gente del mondo della comunicazione?
Lavoro con il designer Jasper Morrison. Morrison ha fatto con te il progetto del Pharmacy.
Sì, lavoro con lui. Lavoro anche con un altro amico che si occupa del mio libro ed è un designer. Càpita che quando lavoro con qualcuno e mi piace, poi diventiamo amici. Sì, diventate amici, vi scambiate le idee, e loro adottano anche un po’ le tue opinioni. Pensi che il fatto di averti conosciuto gli cambi la vita? 
Sì, certo. Basta pensare agli altri mobili di Judd. Voglio dire, sono stupendi, ma scomodissimi. Per me lavorare con i designer è utile. Per progettare mobili io voglio assolutamente dei designer. Perché se non sono comodi, non vanno bene. L’estetica è importante, ma prima di tutto bisogna pensare all’aspetto funzionale. Per me il Pharmacy è un progetto di questo genere. Voglio solo farne un posto dove la gente stia bene. E tutti quelli con cui lavoro vogliono la stessa cosa.

Domus 806, luglio 1998

I clienti si fermano nel tuo locale o mangiano in fretta, in modo molto formale?
No, è un bel locale. È un bel posto per cenare. E ritornano, al piano di sotto c’è un bar molto movimentato, che è come... Insomma, gente che vomita, si fa un bicchiere, balla e fa casino. Fino a che ora siete aperti, mezzanotte?
Al ristorante la cucina chiude a mezzanotte, il bar funziona fino alle due o alle tre del mattino. Sai com’è, le opere d’arte sono continuamente esposte ai danni, non c’è nulla da fare. Le si protegge meglio che si può, ma... È come avere tutti i giorni la mostra invasa da un’orda. Ma era quello che volevo fin dall’inizio. Perciò ogni cosa, i bicchieri, il bancone, si possono chiudere... Ma rubano e rompono di tutto. All’inizio avevo intenzione di vendere portacenere e cose così, per coprire i costi di quelli che la gente rubava.

Pensi che ce la farai a reggere questo ritmo?
Certo, tra un po’ apriremo un locale a Berlino, l’Apotheke. Berlino è un buon posto, soprattutto in questo momento.
Sì, ci vado tutti gli anni e ho degli amici laggiù. E poi un amico metterà su un bar a Parigi. Insomma, i ristoranti vogliono dire molto per me. Ogni volta che nella vita me ne va bene una dico: “Su, andiamo a cena fuori”. Quale tipo di piatti preferisci?
Cucina francese, oppure italiana, oppure... Tutte quante. E cucino da me. Ovviamente ti piace il vino.
Sì. L’alcol mi piace. Non sei astemio convinto.
No, amo tutti gli alcolici. Più ce n’è meglio è. Vedo che sei affamato di vita! Verrò a Londra a trovarti al Pharmacy, solo per vedere se mi piace. Sai, vedo in te il termometro di un nuovo stile di vita. 
Penso che se la vita fosse perfetta non ci sarebbe bisogno dell’arte.

(N.B. Mercoledì 20 maggio 1998 Pierre Restany è andato a cena al Pharmacy. Accoglienza cordiale e pulita, come il design, servizio pronto, buon vino cileno, cucina creativa: tutti gli ingredienti richiesti dai nuovi yuppie pop per un’“opera d’arte” alla moda. Damien Hirst non c’era).