Bruno Latour

(1947-2022)


Tutti gli editoriali scritti in esclusiva per Domus dal grande filosofo, sociologo e antropologo francese.


Bruno Latour

“Può esistere oggi uno stile non moderno?”

Che caratteristiche deve avere uno stile perché sia intrinsecamente contemporaneo, ora che gli oggetti sono diventati cose discutendo il moderno come categoria principalmente etica?

L’editoriale è stato pubblicato sul numero 866 di Domus nel gennaio 2004.

Credo che oggi la questione dello ‘stile’ possa essere schematizzata con una semplice alternativa: è meglio mostrare un oggetto insieme a tutte le sue componenti secondarie (che ne completano l’esistenza) o invece è meglio definirlo con una tale precisione da far sì che ‘risplenda’ luminoso e isolato, come un primo piano stagliato su uno sfondo lontano? Nel primo caso, abbiamo a che fare con delle cose; ‘cose’ nell’antico senso etimologico del termine, ossia questioni e soggetti di comune interesse, che obbligano le persone a ritrovarsi intorno a qualcosa su cui magari non sono d’accordo, ma che nonostante tutto le accomuna. Nel secondo caso ci troviamo invece a trattare con oggetti; ‘oggetti’ come quelli che popolano il mondo esterno: indiscutibili, controllabili, conosciuti, qualcosa che accettiamo come un dato di fatto. La scelta tra le due alternative investe la filosofia, la politica, ma anche l’arte e il design. È, in ultima analisi, una questione culturale.

Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha proposto una distinzione tra ciò che definisce una “prima modernizzazione”, abitata principalmente da oggetti, e una “seconda modernizzazione” sempre più popolata da cose, ribattezzate come oggetti ‘rischiosi’. Ciò non significa solo e semplicemente che nella nostra società opulenta si viva in modo più pericoloso di quanto si facesse un tempo, ma piuttosto che tutti gli oggetti hanno ormai assunto una nuova e diversa qualità: non sono più costretti all’interno dei ristretti confini ontologici definiti dal modernismo, ma scavalcano ogni tentativo di delimitazione. Per dirla con gli economisti, nessuno è più in grado oggi di ‘esternalizzare’ i rischi che minacciano la definizione interna degli oggetti, come è stato fatto – si è tentato di farlo – durante la parentesi modernista.

Oggi, gli oggetti portano con sé appendici e conseguenze scomode, individuabili persino prima che essi vengano alla luce. Si pensi a tutto il parlare che si è fatto in Europa riguardo ai pericoli degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), sebbene non abbiano ancora ucciso nessuno; non si è trattato tanto di una dimostrazione di irrazionalità, quanto dell’emergere di un nuovo, inedito status degli oggetti. Nessuno sembra oggi più capace di immaginare un oggetto originario, delimitato con precisione e in grado di avere – in seguito, solo in seguito – effetti indiretti. Oggi tutte le componenti e le appendici di un oggetto – si tratti di aspetti legali, medici, ambientali, economici… – vengono pubblicamente discusse con largo anticipo sulla sua effettiva nascita, fin dal momento in cui l’oggetto è in fase di ideazione, progettazione o sperimentazione.

Domus 866, gennaio 2004

I ‘nudi’ oggetti di un recente passato si sono trasformati in ‘cose’: scompaginate, irsute e tentacolari.

E così, dappertutto, i problemi pratici stanno lentamente trasformandosi in vere e proprie dispute di pensiero: dalla scelta del sito in cui immagazzinare le scorie radioattive nel sud dell’Italia, alle prove che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, fino alle dispute sul modo più efficace per pulire il David di Michelangelo…

Si tratta di un cambiamento di prospettiva a livello culturale che presenta - retrospettivamente - un’interessante conseguenza sul nostro modo di valutare gli ‘stili’ del moderno. Tutti sembrano d’accordo sul fatto che questi ultimi hanno prodotto strumenti efficaci per eliminare il decorativismo, le influenze del regionalismo e del nazionalismo, oltre che i soffocanti rimasugli di mitologie ormai scomparse. Ed è altrettanto chiaro che gli ‘stili’ del moderno non hanno attraversato solo l’architettura e il design, ma hanno sempre implicato una vera e propria filosofia dell’oggettività. Una implicazione che - più di qualsiasi altra esperienza - ha permeato il Bauhaus, un movimento inteso esplicitamente a rifondare non solo una filosofia della scienza e una teoria dell’arte, ma anche dei principi educativi, economici e politici. La ricerca di questa coerenza era al centro del programma culturale dello “stile moderno”, come antidoto al preoccupante risorgere di quel che i modernisti stessi chiamavano ‘arcaismo’ e ‘irrazionalità’.

Oggi tutte le componenti e le appendici di un oggetto vengono pubblicamente discusse con largo anticipo sulla sua effettiva nascita (…) I ‘nudi’ oggetti di un recente passato si sono trasformati in ‘cose’: scompaginate, irsute e tentacolari.

Se dunque abbiamo ragione di affermare che oggi questa filosofia dell’oggettività sta cambiando, che non siamo mai stati moderni, che è in corso una seconda modernizzazione che trasforma tutti gli oggetti in cose e tutti i problemi pratici in dispute intellettuali, ci dobbiamo allora chiedere quali siano le conseguenze che tutto questo comporta per lo “stile moderno”. Con il senno di poi, possiamo infatti osservare come lo “stile moderno” abbia sempre respinto, esternalizzato o ignorato tutte quelle componenti che rendevano davvero possibili quegli effetti di efficienza, efficacia, eleganza e funzionalità di cui i modernisti stessi sono sempre andati orgogliosi. 

Copertina Domus 866

A ben guardare, la battaglia contro il decorativismo ha dissimulato un’altra battaglia: quella contro il coinvolgimento. Una cosa è proporre la forma funzionalista del grattacielo modernista come alternativa agli orribili scarabocchi di un passato detestabile; altra cosa, del tutto diversa, è disegnare una forma che ignori tutte le componenti che rendono vitale un quartiere urbano. Una cosa è inventare un linguaggio scientifico puro e incontaminato, da contrapporre all’orribile ambiguità delle metafisiche del passato; tutt’altra cosa è escludere i molti linguaggi spuri che permettono alla scienza di restare empirica.

L’aggettivo ‘moderno’ può essere interpretato in due modi: può indicare ciò che è contemporaneo oppure ciò che rompe i ponti con il passato. Ma a questo punto sorge un sospetto: e se i vari stili del moderno non fossero mai stati per davvero intrinsecamente contemporanei? La loro ossessione verso il passato (seppur per prenderne le distanze) li potrebbe infatti aver resi ciechi nei confronti della loro mancata adesione al presente. Nel termine ‘emancipazione’ c’è infatti una riserva di libertà ancora prigioniera, che il modernismo non ha mai veramente liberato: ‘emancipazione’ è una parola che oggi va necessariamente messa fra virgolette.

È come se tutte le battaglie combattute contro le pastoie del passato avessero sempre nascosto un compito ben più impegnativo: la selezione tra appendici positive e negative degli oggetti, è stata confusa con l’impossibile scelta se accettare queste appendici o rifiutarle del tutto. Da cui la questione che intendo sollevare: che caratteristiche deve avere oggi uno stile – nel senso più ampio di “pratica culturale” – perché sia finalmente intrinsecamente contemporaneo? In altre parole, come deve caratterizzarsi uno stile nella filosofia della scienza, nell’architettura, in politica, in economia, nel design, nell’arte, che sappia internalizzare ciò che gli stili del moderno, sempre così svelti a ‘sbarazzarsi’ delle appendici, hanno sempre esternalizzato?

Al contrario di quel che postulano i post-moderni, il modernismo non è una sfera del passato da superare, decostruire o semplicemente abbandonare. Il problema del “primo modernismo” è invece che si è trattato di un movimento ossessionato dal passato. Oggi è invece forse giunto il momento di considerare il futuro. Sempre che esso sia al passo col suo tempo – proprio il compito più difficile per un modernista.

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