Bruno Latour

(1947-2022)


Tutti gli editoriali scritti in esclusiva per Domus dal grande filosofo, sociologo e antropologo francese.


Bruno Latour

“Digitalità alternativa”

Anticipando il concetto di realtà aumentata, Latour risponde alla domanda di inizio millennio, se la digitalizzazione avrebbe reso tutto più virtuale. La risposta è decisamente no.

L’editoriale è stato pubblicato sul numero 870 di Domus nel maggio 2004.

Perché è così difficile interpretare la dimensione digitale? La trasformazione di ogni cosa in stringhe di impulsi 0 e 1 sta forse spingendo tutti noi, povere anime mortali, verso il paradiso formale della virtualità? O al contrario sta offrendo una nuova dimensione materiale a tutto ciò che è formale e spirituale? È difficile dire quale di queste due ‘sparate’ sia più in grado di cogliere quello che sarà il destino dell’arte nell’epoca della riproducibilità digitale.

Da un lato, utilizzando motori di ricerca come Google, possiamo trovare la nostra strada nel mondo senza mai muoverci dalla nostra stanza; i fisici possono innescare esplosioni atomiche senza provocare fallout radioattivi, contenendole all’interno dei loro computer che sfornano simulazioni a getto continuo; milioni di ragazzini possono partecipare a sessioni di gioco collettive all’interno di gigantesche sale giochi senza dover acquistare alcun immobile. Perciò sembra naturale che si sentano spuntare sulla nostra schiena le ali della virtualità. Presto, non c’è dubbio, saremo pronti a fare il download dei nostri corpi, incanalandoli come sostanze liquide nei chip solidi che formano la struttura del world wide web.

Ma questi pezzi solidi di silicone hanno anche un’altra faccia: oggi tutte le idee sono misurabili in byte, tutti gli articoli di informazione sono classificabili a seconda del numero di ‘hit’ e di ‘link’; per ottenere una connessione a Internet è necessario possedere un qualche cablaggio o acquistare una qualche scheda ‘airport’; oggi le immagini hanno un peso misurabile in Kilobyte, e quando sono troppo ‘pesanti’ finiscono per ‘intasare’ le nostre caselle e-mail; il formalismo si incarna nei pixel, negli elettroni e nei modem; i computer si surriscaldano e, cosa più penosa di tutte, invecchiano rapidamente raggiungendo a passi vertiginosi un’obsolescenza già programmata in anticipo. Ai tempi di Platone i concetti astratti non avevano né bug, né virus né trademark. Oggi invece qualsiasi cosa venga prodotta dalla nostra mente viene sminuzzata in codici proprietari posseduti da Mr. Bill Gates o riversata all’interno di macchine sulle quali è scritto in bella evidenza “Intel inside”.

Domus 870, maggio 2004

Ma se è così dobbiamo chiederci: la digitalità è l’inizio della virtualità o la fine dell’idealismo? Con l’allestimento di una piccola ma interessantissima esposizione intitolata “nO1se”, l’artista Adam Lowe e lo storico delle scienze Simon Schaffer avevano dimostrato già nel 1999 che la digitalità ha una lunga storia, iniziata nel XVI secolo con l’invenzione della mezzatinta, una nuova tecnica di stampa che permetteva agli incisori di riprodurre le ombre con la moltiplicazione dei punti bianchi e neri, gli antenati dei nostri pixel. Quella digitale non è solo una tecnica antica, ma come ha dimostrato il filosofo della computazione Brian Smith non è propriamente corretto affermare che i computer moderni sono macchine elettroniche, dato che i loro stati elettrici rimangono pur sempre analogici. La digitalità è l’effetto delle caratteristiche di organizzazione comuni a tutti i computer, non la natura intrinseca delle loro schede madri. O, come affermava lo stesso Alan Turing, “è una comoda finzione pensare che ogni commutatore debba essere sicuramente acceso o sicuramente spento”.

La natura intrinsecamente analogica dei segnali si svela quando si prova a stampare dei file digitali, come ha fatto Adam Lowe in occasione di un’altra mostra, utilizzando tecniche differenti. Lo stesso file composto di segnali 0 e 1, una volta tradotto in raggi laser, in bolle o gocce, genera immagini che appaiono completamente differenti. Così la macchina formale dopo tutto può non essere così formale. Se la digitalità è una “comoda finzione”, essa può spiegare perché è così difficile stabilire se l’era dell’informazione ci condurrà a una nuova virtualità o a una nuova materialità. Nel campo dei computer dobbiamo aspettarci moltissimi cambiamenti ancora imprevedibili. Sostiene sempre Turing: “Le macchine mi colgono di sorpresa con grande frequenza”.

È questa definizione alternativa dell’era digitale che ha spinto Lowe a trasferirsi da Londra a Madrid e a fondare laggiù, insieme con il pittore spagnolo Manuel Franquello, uno studio chiamato Factum-Arte dedicato alla produzione di facsimili. La loro idea non era quella di ottenere repliche virtuali di opere originali, ma di utilizzare i file digitali come strumento per indagare la qualità materiale delle opere d’arte originali. L’alto livello di risoluzione della scansione tridimensionale viene sfruttato pienamente per guidare una serie di macchine copiatrici costruite appositamente, di stampanti e di trapani che sono in grado di produrre una copia materiale degli originali. Il file digitale non è il fine, ma il mezzo per riconquistare la materialità. Nello studio ci si serve di computer, ma anche di strumenti antichi come quelli dei pittori, degli incisori, dei modellatori e degli scultori.

Copertina Domus 870

Si prenda ad esempio la copia realizzata da Factum-Arte di una sezione della tomba del faraone Seti I. L’idea non era quella di produrre una presentazione virtuale della tomba: non vi sono schermi o occhiali che siano in grado di competere con la precisione della scansione. L’obiettivo non è neppure quello di confondere il visitatore con una versione contraffatta della Valle dei Re. La contraffazione, come mostra l’intera storia dei falsi nell’arte e nelle scienze, non richiede un’abilità così grande, dal momento che è facile ingannare le menti del pubblico. No, qui l’idea consiste nel capovolgere radicalmente il concetto di virtualità, sfruttando la performance tecnica di coniare una replica a scala naturale di una tomba per spiegare per quale motivo la texture dell’originale non può essere replicata.

E per spiegare anche, cosa di grande importanza per la conservazione, perché l’originale non dovrebbe essere sottoposto a restauri poco accurati. Ogni nuovo foro, ogni nuova scansione, ogni nuova stampa a colori svela in studio un’altra versione delle qualità intrinseche di Seti: le crepe, le sfumature cromatiche, la grana della pietra, le vernici, persino i successivi danneggiamenti e riparazioni. È come se la ripresa digitale permettesse di scorticare l’originale caratteristica dopo caratteristica, strato dopo strato, senza toccarlo, se si eccettua il rapido passaggio di un sottilissimo raggio laser.

No, il mondo digitale non ci condurrà all’esistenza virtuale propria degli angeli. (…) le repliche digitali sono fatte di materia tanto quanto gli originali, eccetto che lo sono ancora di più.

Alla fine viene dedicata talmente tanta cura, talmente tanta energia, inventiva, abilità, alla creazione del facsimile, che quello che si ottiene è un sorprendente secondo originale, prezioso come il primo, e naturalmente molto più flessibile! Così la replica digitale non solo possiede un’aura di preziosità, ma accresce l’aura stessa dell’originale, rivelandone la tessitura e mettendolo al riparo da eventuali restauri arbitrari. Chiusa ai visitatori, la tomba di Seti I potrà conservare i propri segreti a beneficio delle generazioni future; invece una volta aperta al pubblico e restaurata a più riprese scomparirebbe in pochi decenni senza lasciare alcuna traccia.

No, il mondo digitale non ci condurrà all’esistenza virtuale propria degli angeli. Come scopre dolorosamente Adie Klarpol, giovane protagonista del racconto di Richard Powers Plowing the Dark, le repliche digitali sono fatte di materia tanto quanto gli originali, eccetto che lo sono ancora di più. Dopo aver lavorato per molti anni a un modello digitale perfetto in 3D di un’opera d’arte, la protagonista si rende conto che le bombe intelligenti lanciate sui bersagli iracheni da un nuovissimo campo di battaglia digitale situato da qualche parte della Florida sfruttano le stesse tecniche che lei sta sviluppando nel suo laboratorio isolato dal mondo. Improvvisamente, la digitalità irrompe nella storia molto più antica dei facsimili: “Non riprodurre effigie incise”.

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