Bruno Latour

(1947-2022)


Tutti gli editoriali scritti in esclusiva per Domus dal grande filosofo, sociologo e antropologo francese.


Bruno Latour

“Benvenuto a un ideale?”

Il moderno come atteggiamento  ha da sempre portato dentro sé una ambiguità di posizione, e una interdipendenza con il passato. “Diamo il benvenuto a un nuovo ideale: il futuro?”

L’editoriale è stato pubblicato sul numero 872 di Domus nel luglio 2004.

Nel suo per certi versi brillante capolavoro sulla storia della pittura modernista, Farewell to an Idea (“Addio a un’ideale”), T. J. Clark spiega che il Moderno è la nostra Antichità: un’epoca già abbastanza lontana da rendere difficile ricostruire che cosa capitava a noi tutti quando eravamo moderni, quando rompevamo coraggiosamente con il passato, quando inseguivamo le avanguardie, quando lottavamo contro orde di filistei e di altri reazionari. L’aggettivo ‘moderno’ (come in “arte moderna”, “architettura moderna”) è già così datato che i musei dedicati ai movimenti contemporanei sono stati a poco a poco sopraffatti dalla storia e si sono oggi trasformati in magazzini del passato. Per esempio le funzioni del Museo d’arte moderna del Centre Pompidou di Parigi vengono sempre più considerate, per il XX secolo, le stesse svolte dal Musée d’Orsay per il XIX: ricordare ai visitatori le glorie del passato.

È strano per la mia generazione sentire sul viso il freddo vento della storia. Forse l’accelerazione della storia è stata tale che dovremmo iniziare a costruire musei per il primo decennio del XXI secolo? Forse il culto del passato è degenerato al punto da aprire l’epoca dell’“antichità istantanea”? Oppure è ancora l’ossessione modernista per il rapido trascorrere del tempo che ci costringe a questa obsolescenza pianificata di stili e movimenti?

La prospettiva forse cambia un poco se accettiamo l’ipotesi, da me formulata qualche anno fa, che “non siamo mai stati moderni”. Benché il modernismo abbia rappresentato una potente ed efficace interpretazione degli ultimi tre secoli, non può essere preso in parola come descrizione dei fatti. Se ho ragione, allora, ci sono sempre state una versione ufficiale del modernismo e una più nascosta. Per esempio: proprio quando Cartesio conia il suo celebre cogito – “io penso” – gli scienziati inventano la prima rete di cooperazione su vasta scala basata su laboratori, accademie e riviste scientifiche. Proprio quando l’idea del pensatore isolato diventa obsoleta il più grande di essi, isolato nel suo focolare domestico olandese, ricrea l’intero mondo.

Domus 872, luglio 2004

Analogamente proprio quando Kant immagina la rivoluzione copernicana attraverso un mondo plasmato dalle categorie dell’Io trascendentale, un’altra rivoluzione, quella industriale, sovverte per sempre ogni netta distinzione tra oggetto e soggetto. A quale strato della modernità si deve dunque dar fede? A quello che definisce il pensatore isolato o a quello che dà vita al primo grande laboratorio condiviso europeo? Quale pista dobbiamo seguire: quella che delinea le categorie della mente umana oppure quella che segue l’espansione globale dell’Europa? Tra i due movimenti non c’è un rapporto ovvio, se non per il fatto che il primo è una palese negazione del secondo.

Questa incertezza a proposito dei tratti diametralmente opposti del modernismo può essere constatata in ogni momento della relativamente breve parentesi modernista. Come ha dimostrato Adolf Max Vogt nel suo affascinante libro sulla formazione psichica di Le Corbusier, l’arcimodernista, questa icona dell’architettura moderna non sognava altro che capanne primitive costruite su palafitte, come quelle abitate dai preistorici cittadini del lago di Neuchâtel, in riva al quale aveva passato la giovinezza. Il primitivismo, l’ossessione della rottura con il passato, l’appello nostalgico alla storicizzazione sono tratti del modernismo quanto la sua palese ossessione per la ragione, il calcolo, l’efficacia e la pragmaticità. Come per il futurismo, sappiamo fin troppo bene quanto fosse legato all’arcaico ritorno del passato.

È probabilmente a causa di questa ambivalenza che i modernisti non furono mai capaci di essere, per così dire, contemporanei di se stessi. Non furono mai davvero sicuri di che cosa significasse “appartenere al proprio tempo”. Baudelaire, mentre inventava il ruolo dell’artista modernista, espungeva accuratamente dalla sua traduzione di Edgar Allan Poe tutto ciò che rendeva Poe davvero contemporaneo della scienza e della tecnologia. Essere moderni è sempre essere fuori posto.

Ciò è quanto mai chiaro nella questione della rivoluzione della scienza, della politica, della tecnologia e dell’arte. L’ambiguità è insita nella stessa etimologia della parola ‘rivoluzione’, che significa contemporaneamente più della stessa cosa e ciò che non sarà mai la stessa cosa. Per secoli la parola ha indicato il ritorno ciclico delle stagioni e dei regimi politici, oppure il moto circolare dei corpi planetari. Solo più tardi, dopo che gli scienziati avevano usato la parola per la loro specifica rivoluzione scientifica, essa prese il significato opposto di rottura netta con il passato, inizio radicale a partire da una tabula rasa completamente vuota. 

Copertina Domus 872

Ma come ha brillantemente dimostrato Bernard Yack la parola rivoluzione assume il suo significato più fatale all’inizio del XIX secolo, quando i pensatori, delusi dalla Rivoluzione francese, iniziano a mescolare il tema religioso della conversione, sogni apocalittici di rigenerazione, metafore artistiche di nuova creazione e iniziano a parlare di una nuova figura d’uomo. 

Il punto non era più cambiare soltanto le istituzioni politiche, ora era l’umanità stessa nei suoi elementi fondamentali a dover essere ricreata ex novo: d’ora in poi nessuno si sarebbe contentato di qualcosa di meno. Come dimostra Bernard Yack, questa disperata speranza di rigenerazione totale portò non solo alla delusione – l’umanità, in modo in verità non sorprendente, continuava a tornare alla sua solita personalità… – ma anche alla debilitante ossessione per i legami con il passato che è diventata così tipica del modernismo. La passione di appartenere all’avanguardia è solo l’aspetto fatuo di un’altra passione, quella di non farsi contaminare dalle macchie di un’antichità disgustosa.

Una volta riconosciuto che non siamo mai stati moderni, diventa possibile immaginare una soluzione per il modernismo e considerare in modo positivo la dismissione del tema della rivoluzione. Invece di prolungare artificiosamente il modernismo facendone un pezzo da museo, invece di rimpiangere che le giovani generazioni abbiano abbandonato lo slancio rivoluzionario degli avi, può essere più fruttuoso riconoscere il modernismo per ciò che è sempre stato: un giovanile e patetico tentativo di negare ciò che si era fatto in tutto il mondo. Il suo sogno di emancipazione era sempre stato controbilanciato da un’opposta tendenza al vincolo. Poiché rivolgeva così profondamente la sua attenzione al passato, con cui voleva rompere, aveva ciecamente contrastato il cammino della storia, producendo nella sua scia ibridi stranissimi, mescolando tutti i periodi, confondendo ogni epoca.

In Farewell to an Idea, Clark esprime grande nostalgia per le idee grandiose del modernismo. Ma resta possibile un altro compito: artisti, scienziati, politici e cittadini potrebbero volgersi non al passato ma al futuro, in modo da diventare, in prospettiva, contemporanei di se stessi e commettere i peccati della storia a occhi ben aperti… Diamo il benvenuto a un nuovo ideale: il futuro?

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