La lettera di Domus al primo Presidente della Repubblica

“Il nostro lusso è la speranza”: nel giugno del 1946 il nuovo direttore di Domus Ernesto N. Rogers indirizza una lettera aperta al futuro Presidente della neonata Repubblica italiana, dando voce alla disciplina e a una generazione intera.

Nel pieno di una crisi globale dovuta alla pandemia, che ha messo in discussione equilibri politici su scala planetaria, Sergio Mattarella viene confermato alla carica di Presidente della Repubblica con uno storico secondo mandato.

Quasi mai il rituale dell’elezione del Presidente si è svolto senza burrasche, colpi di scena, fuochi incrociati o estenuanti guerre di posizione, e molto raramente non è avvenuto in coincidenza con punti critici della storia nazionale.

La volta più ardua è stata però indubbiamente la prima, all’indomani di un altro disastro planetario e di un periodo buio per l’Italia stessa, con la Repubblica neonata, la Costituzione ancora da scrivere e un Presidente mai eletto e ancora da eleggere. Poco più di tre quarti di secolo fa, dieci giorni dopo il referendum dal quale l’Italia era uscita repubblica, Ernesto Nathan Rogers, nuovo direttore della Domus postbellica, indirizzava proprio a questo futuro e sconosciuto presidente una lettera aperta, facendo i conti con le responsabilità di una disciplina intera, ma soprattutto con cosa potesse allora significare la speranza.

La lettera esce su Domus 210, nel giugno del 1946. 

domus - ernesto nathan rogers - lettera al presidente della repubblica, 1946
Lo Stato dell’Arte, Domus n. 210, giugno 1946, pag. 2

“Signor Presidente,

Mi permetto di scriverLe senza ancora sapere il Suo nome: prima che l’Assemblea, la quale riassume la nostra volontà di liberi cittadini, abbia fatto la scelta.

Se fosse decente vorrei non firmare, per togliere al messaggio ogni significato personale e salvarlo dalla presunzione o dalla timidezza. L’Anonimo, architetto, si rivolge al Presidente anonimo. Noi abbiamo trepidato in questi giorni; e io non ricordo, dopo l’esame della terza liceo, di aver atteso con più ansia il compimento d’una mia azione (anche allora il mio punto debole era la storia).

Credevo, in quella circostanza, che, superata la prova, avrei potuto fare finalmente l’architetto; simili pensieri mi vennero quando entrai nella cabina dei votanti e posi il segno accanto all’Italia turrita.

Certo, il 2 giugno, le stesse speranze erano nel cuore di quasi tutti gli architetti di fede. Il risultato è stato una gioia e tuttavia noi non pretendiamo i miracoli dalla Repubblica e nemmeno da Lei, signor Presidente.

Apparteniamo a una generazione che ha pagato anche per le future il suo tributo all’ingenuità e alla stoltezza: l’architettura moderna per giungere alle mete cui la nostra passione la destinava ha perduto la verginità, dacché, come Maria l’Egiziaca, s’è donata ai traghettatori.

Si, dal più al meno, abbiamo tutti peccato se pensavamo che l’amore dell’arte potesse consentire tante licenze e così gravi compromessi. Ma sono trascorsi molti anni da quando il nostro spirito era confuso e il rossore della vergogna impallidisce Solo se paragonato al solco delle ferite di che si colorano ormai i nostri sentimenti. Tra noi abbiamo avuto dei martiri e, se non ci spetta la loro aureola, chi può negarci l’insegnamento dei dolori patiti per i padri e i fratelli che sono morti? Quei martiri, io sento, proseguono le virtù dei poeti i quali – come ammonisce Baudelaire – hanno il privilegio di essere ad un tempo se stessi e gli altri.

domus - ernesto nathan rogers
Ernesto Nathan Rogers

Perciò, signor Presidente, Le racconto queste cose che sembrano intime confessioni e non richieste scuse.

Nessuno pretende miracoli, Ma l’esperienza non ci ha inariditi fino allo scetticismo: il nostro lusso è la speranza.

Non crediamo che la Repubblica sia il toccasana, sappiamo pertanto che essa sola raccoglie le energie potenziali del risorgimento: è la possibilità dei vivi; vinceremo o falliremo: dipende da noi. Ecco che finalmente dal Capo, né come cittadini né come artisti, non abbiamo nulla da temere e quasi nulla da chiedergli, perché è uno di noi, la somma algebrica dei nostri vizi e delle nostre virtù.

Se tutti quanti miglioreremo, alle prossime elezioni avremo un capo ancora migliore; se no, tutto si svolgerà nella risultante peggiore.

Ella e noi, signor Presidente, insieme, siamo lo Stato.

Dunque, parlare d’architettura – diciamo infine d’Arte –, d’Arte di Stato, come di qualcosa che scende dall’alto per imporci le forme, le espressioni e i sentimenti è un non senso, una sciocchezza, simile a una bestemmia. Parliamo, invece, di Stato dell’Arte e a questo possiamo tendere, noi altri italiani che, senza retorica, abbiamo diritto di appellarci a una civiltà genuina per continuarla come uno dei nostri primi doveri tra gli altri popoli.

Stato dell’Arte vorrei che fosse la meta ideale di una perfezione collettiva cui, non solo lo sparuto gruppo degli intellettuali e dei creatori può aspirare, ma liberamente il popolo intero.

Tutti architetti, tutti artisti, quindi, gl’Italiani della Repubblica?

Non sorrida, signor Presidente. Lasci che le precisi.

Vorrei che a ciascuno fosse dato di poter cogliere i prodotti dell’arte e di goderne, onde si stabilisca tra chi fa e gli altri un circolo spirituale, uno scambio come dalla terra che procrea il frutto e ne riceve insieme.

So bene che ad un uomo, nelle sue condizioni, premuto da ogni parte dagli affari contingenti, e quasi soffocato dall’ansia di dare giorno per giorno pane, difesa, treni e quant’altre necessità impellenti a 45 milioni di individui, queste mie parole, questo nostro bisogno possono sembrare fuori dalla storia, ma io mi figuro inoltre che un uomo, posto dalla fiducia dei connazionali a così alto ufficio, debba sentire nel rifugio della sua anima l’eco dei nostri i medesimi sentimenti. Ho scritto ‘eco’, ma avrei detto meglio ‘origine’ poiché ogni uomo, per sua stessa natura deve sentire, sia pure nella diversa misura della propria personalità, anche il bisogno dell’Arte. 

Né altrimenti può essere di uno Stato che è appunto l’insieme degli individui. E io credo ch’Ella, nella Sua illuminata coscienza di governante, debba riconoscere come la Carta Atlantica, la quale pure voleva essere una specie di nuova legge degli uomini, rivelerebbe – quando ci fosse – una lacuna, poiché non menziona, te le altre, questa dell’Arte che è una delle massime libertà da conquistare, se non dagli individui, certo ancora dalle masse.

Utopia? E se io Le parlassi di religione non potrei essere egualmente tacciato d’astrattismo? E la giustizia non è un concetto astratto? Perfino la fame è un’astrazione per chi non la prova.

Strappare la verità dal cielo e tradurla in termini concreti nella giornata terrena, questo è compito di Cesare: mi scusi: questo è compito di governo.

Ma tale opera non è sana né valida se non parte da una concezione unitaria dell'uomo per cui ad ogni istante, nei limiti del possibile non si affrontino parallelamente tutti i problemi.

E, come un individuo non può pensare, oggi, soltanto di lavarsi; domani, soltanto di leggere e posdomani, soltanto di mangiare, così non può una società progettare il proprio avvenire a rate di cui pagheranno il saldo in frantumi delle generazioni future. Questo si fa in guerra, ma la guerra proprio perciò è il momento negativo della civiltà.

domus - ernesto nathan rogers - lettera al presidente della repubblica, 1946
Lo Stato dell’Arte, Domus n. 210, giugno 1946, pag. 3

Lo Stato dell’Arte è quello che traverso il libero esercizio dei cittadini ha saputo definire uno stile, riflesso di un costume, in quanto che i problemi dell’Arte non sono se non particolari e significativi aspetti di una cultura. Ma non esiste una cultura senza un’etica, Anzi vorrei aggiungere che non esiste un’estetica senza un’etica e che, dunque, L’Arte è proprio la forma sensibile del nostro mondo morale.

Può, allora, disinteressarsene il Presidente della Repubblica?

Si tratta di vedere in quale maniera nelle attuali enormi difficoltà, si possano conciliare le complesse esigenze spirituali (d’ogni settore) con tutte le esigenze pratiche.

Lo stabilire i principi della società italiana nella concezione della nuova esistenza è compito della Costituente, né tocca a me presumere di far più che indicarli; ma Ella avrebbe ragione di tacciarmi d’indeterminatezza se, in una lettera tanto lunga, Le nascondessi la mia pur modesta opinione sull’impostazione del problema.

Si farà il Piano Nazionale della Ricostruzione? Lo spero. E, allora, esso non potrà non fondarsi su ovvie basi di giustizia sociale, dove – senza neppure entrare ancora in merito alle diverse dottrine sull’attività pubblica sulla privata – si vorrà che si graduino le opere lungo il tempo, badando prima a quelle opere che tornano a vantaggio della collettività.

Ma poiché questo – come ho detto – è ovvio, mi permetta di insistere su un altro concetto che ci rende perfino litigiosi tra architetti: ed è che, una volta delineato un rigoroso schema sociale, si tenga presente come nessuna opera – è questo è appunto tema particolare dell’architettura – può considerarsi valida, neppure socialmente se, pur rispondendo all’utilità pratica, non soddisfi parimenti alle esigenze della bellezza. Resta fermo il principio – e questo non tocca l’architettura, ma le altre arti – che ogni manifestazione dello spirito, per il solo fatto di essere tale, anche se non risponde ai bisogni pratici, è di pubblica utilità purché ognuno possa farsene patrimonio spirituale.

L’angoscioso dibattito in cui ogni giorno ci troviamo perché le nostre opere ci contraddicono essendo imbrigliate nella struttura sociale, dovrebbe risolversi progressivamente con spirito rivoluzionario. (A meno che l’umanità rinunci a riconoscersi nel quadro completo dell’esistenza).

Allora gli architetti, tutti gli artisti, ritroveranno l’equilibrio nella propria coscienza e l’armonia nelle opere: laggiù è la casa dell’uomo, meta lontana, ma non miraggio del nostro orizzonte.

Oggi è lecito sperare; seppure, per chi ha fede tenace, basti forse lo sprone di Guglielmo il Taciturno quando afferma che non è nemmeno necessario sperare per intraprendere, riuscire per perseverare.

Aiutiamoci tutti, affinché i milioni di cittadini che hanno fissi gli occhi in quest'alba della Patria non rimangano delusi.

Così signor Presidente, l’augurio che formulo per Lei, mentre si accinge al grave compito che Le abbiamo affidato, rivolto anche a me stesso: a tutti gli Italiani.

Suo dev.mo

Ernesto N. Rogers

Milano, li 15 giugno 1946.”

domus - ernesto nathan rogers - lettera al presidente della repubblica, 1946
“Pericle mostra come sono stati spesi i soldi del popolo”, dipinto di J. Bauchant

Immagine in apertura: Sergio Mattarella, presidente della Repubblica Italiana. Courtesy Presidenza della Repubblica

Ultimi articoli d'archivio

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram